Benjamin Alire Sàenz. Tutto inizia e finisce al Kentucky Club. Sellerio, 2014. 246 pag. 16 euro.
Non avevo mai sentito parlare di questo autore e sono molto contento di aver iniziato a conoscerlo: se tutta la sua produzione ha questa qualità letteraria, leggerla sarà un grande piacere. Questa raccolta è formata da sette racconti dalla lunghezza omogenea, più o meno trenta-quaranta pagine per ognuno, e hanno in comune lo svolgersi delle vicende in quella zona del mondo a cavallo tra gli Stati Uniti e il Messico. Se questi racconti fossero musica sarebbero quel genere che viene spesso chiamato Tex-Mex e la loro colonna sonora ideale sarebbero brani di David Lindley, Terry Allen o Ry Cooder. L’atmosfera complessiva di questo testo è quella rarefatta di alcune cose di Raymond Carver, ma con più alcol nelle vene e la pressione arteriosa molto più alta, una scrittura lievemente più sanguigna ma senza sconfinare nell’emozionale. Tutti i racconti hanno lo stesso andamento timido di un piccolo animale che sporge la testa da una tana quel tanto che basta per farsi vedere ma non abbastanza per mettersi completamente in mostra, lasciando sconosciuta una parte di sé, quella parte oscura e nascosta che rende i testi fascinosi, come fossero una diva del muto degli anni trenta.
Esattamente per questo motivo è piuttosto difficile connotare questi testi. E’ molto probabile che la personalità, sensibilità e attenzione di ogni lettore ne traggano una diversa impressione ed emozione, ma sono quasi certo che ogni lettore ne potrà godere, dal più smaliziato al più ingenuo. Hanno una grazia sottile, un confine molto labile tra il detto e il non detto, tra il dichiarato e il sottinteso, senza che quest’alone di indefinitezza venga percepito come reticenza, come scarsa generosità dell’autore. Il tema centrale, comune a quasi tutti i racconti, è l’omosessualità, in particolare quella maschile. Non so e non mi interessa sapere se l’autore sia omosessuale, di certo in questi racconti è riuscito a illuminare in modo del tutto originale questa tematica, evitando tutti i clichè e lasciando che i suoi protagonisti vivano con naturalezza la propria sessualità, evitando di tornare sulle stesse logore e stravisitate storie di accettazione/non accettazione, dolorosi coming out o altrettanto dolorose finzioni.
Forse la conquista della vera normalità, dell’assoluta libertà di ognuno, passa anche per questo.
Tayie Selasi. La bellezza delle cose fragili.Einaudi, 2013. 328 pag. 16.15 euro
Quando si è alle prese con un libro di un’autrice di origine ghanese-nigeriana, nata a Londra, trapiantata negli Stati Uniti e poi in Italia, che scrive in Inglese ed è tradotta in italiano, è piuttosto difficile capire l’origine delle stronzate che ne vengono fuori. Forse il traduttore si è trovato in difficoltà, non so, ciò di cui sono certo è che l’autrice non abbia fatto nulla per aiutarlo. Di sicuro questo romanzo è faticoso, ripetitivo e spesso involuto, ma ciò che maggiormente infastidisce è l’approssimazione linguistica. Sarà che ho un piccolo passato da editor e che quindi presto estrema attenzione alle revisioni, ma penso che neppure durante una conversazione tra amici si dovrebbero lasciare andare le parole con questa assoluta sciattezza.
A parte l’uso della parola “tipo”, che è già irritante se ascoltata nei dialoghi tra adolescenti e quindi figurarsi in un testo con pretese letterarie, ci sono alcuni passaggi in cui il disconoscimento del significato delle parole è a dir poco imbarazzante. Anche se l’approssimazione è ben rappresentata in tutto l’arco del romanzo, cito una sola frase perchè credo esemplifichi ciò che sto scrivendo. La si può trovare a pag. 6… tanto per mettere subito le cose in chiaro.
“ Una casa a un solo piano, nata da un’idea veramente geniale, niente di innovativo, d’accordo, ma funzionale e piena di gusto”. La domanda che sorge dal cuore è: carissima Tayie, benedetta ragazza, lo conosci il significato delle parole o scrivi le prime che ti vengono in testa? Usare nella stessa frase, per descrivere lo stesso oggetto, “veramente geniale” e “niente di innovativo”, unirle con una parentetica e per poi terminare con “ma funzionale”, non dovrebbe essere soltanto fortemente sconsigliato dal buon senso, dovrebbe essere proibito per legge.
Per non parlare poi di quel meraviglioso “d’accordo”… D’accordo con chi? Con lei stessa che scrive? E vorrei vedere. Con il lettore che non può saperne nulla? E per forza, che altro può fare?
Purtroppo il guaio di questo testo non è soltanto l’approssimazione: il caos che regna all’interno del romanzo è di rara disarticolazione e complessità. Si soffre per i repentini e spesso inutili passaggi presente/passato e Africa/Europa, per la costruzione di frasi che rasentano l’abuso edilizio, per il continuo ricorso al corsivo e per lo scialo di parentesi.
Sinteticamente: è più rilassante prendere un tè con Salvini e Borghezio. Almeno lì, dopo cinque minuti, si può inventare una scusa e fuggire via. Il pugno sui denti ad ogni autore italiano degno di questo nome, è che questa signora sia stata chiamata (e probabilmente lautamente pagata) per fare da “giudice” nel primo talent-show letterario della televisione italiana, il discutibile “Masterpiece”.
Anche in questo caso la domanda sgorga dal cuore: lo so che in tv la signora fa una gran figura… ma in giro non c’era proprio niente di meglio?
Philip Roth. Il professore di desiderio. Einaudi, 2010. 236 pag. 19.50 euro.
Temo che scrivere qualcosa di originale (o almeno di non trito e ritrito) sulla grandezza della scrittura di Roth, sia una impresa al di là delle mie capacità, tentare di farlo sarebbe un esercizio di presunzione. Quindi mi accingo a scrivere queste poche righe con la devozione dell’ammiratore e la deferenza dello scrittore consapevole di non poter mai riuscire a raggiungere tali livelli: più o meno come se un chitarrista scrivesse di Hendrix o un calciatore di Maradona.
Nell’ultima intervista televisiva che ha rilasciato, Roth ha pronunciato una frase che riassume alla perfezione ciò che penso di questo romanzo e di tutta la sua scrittura: “Se un romanzo che stiamo leggendo non ci desta con una botta in testa, perché leggerlo?”. Da uno scrittore che parla in questo modo, e che si adopera con intelligenza per dare seguito a ciò che dice, non si può che aspettarsi testi importanti e con Roth, puntualmente, non si rimane delusi.
Questo romanzo, nella sua bibliografia, è uno di quelli che era rimasto un po’ in ombra, forse schiacciato dall’enorme peso di altri capolavori, basti pensare che “Lamento di Portnoy” è di soli quattro anni prima. E forse è vero, non raggiunge la devastante potenza del romanzo appena citato o di altri successivi come “Il teatro di Sabbath”, la magnifica ambiguità de “La macchia umana” o le impietose e profondissime riflessioni sulla società di “Pastorale americana”, ma ha una sua precisa ragione d’essere e di essere ricordato. Tutto il testo è una indagine sul desiderio, una stringente inchiesta interiore su ragioni e genesi dei desideri e sul loro diventare insignificanti poco dopo essere stati esauditi, soddisfatti, in qualche modo archiviati per essere sostituiti da nuovi.
Cos’altro dire? Chi legge questa rubrica sa che non mi soffermo mai sui plot, sulle cosiddette trame, ma in questo caso sarebbe ancora più stupido farlo. Questo, come tutte le altre opere di Roth, è un romanzo in cui la tessitura della trama ha una importanza irrisoria: non è importante quel che accade, è fondamentale soltanto il modo in cui ci viene narrato e da dove prendono le mosse gli avvenimenti, non il loro svolgersi.
Stefano Benni. Pantera. Feltrinelli, 2014. 112 pag. 12 euro
Letta l’ultima pagina di questo librino mi sono rivolto una domanda, ma prima di darmi una risposta, nel tentativo di essere convincente (soprattutto con me stesso) ho cercato di:
1. Operarmi al cervello per asportare quella sorta di cancro che è un misto di invidia e ammirazione nei confronti di uno scrittore stravenduto, straconsiderato e quasi venerato.
2. Ricordare con gratitudine l’immenso piacere di leggere Benni per più di trent’anni.
La domanda, sintetizzando grossolanamente, è: mi piacerebbe essere Stefano Benni?
La risposta immediata, ovviamente, è stata: “Certo!”. Ma subito dopo mi sono sbocciati dei dubbi. Quando tutti i tuoi lettori non sono più lettori ma sono degli ultras, ha ancora un senso spaccarsi testa e culo sulle pagine? Si può ancora riuscire a nutrire un sano senso di autocritica? Per chi si scrive? Avvertimento: il primo che sussurra “per se stessi” lo prendo personalmente a legnate!
Con le rarissime eccezioni di alcuni esseri umani che scrivono senza mai essere sfiorati dall’idea di far leggere le proprie cose ad un amico, ad un fidanzato/a o, più ambiziosamente, di proporre i propri testi ad un editore, tutti scrivono per un eventuale, possibile, probabile, sperabile lettore.
E’ evidente. Ho molto apprezzato Camilleri quando, a chi gli chiedeva se non si fosse stancato di scrivere di Montalbano, ha risposto: “Ha idea di quanto posti di lavoro metterei a rischio se smettessi di scrivere i Montalbani?”. Forse sto divagando, anzi, sto divagando certamente, ma ciò che vorrei capire è: ha senso continuare a chiamare autore un produttore di ripetitività, di riproposizione degli stessi mondi, degli stessi stilemi, suggestioni, atmosfere, usando invariabilmente la stessa voce narrativa senza mai cambiare nulla? Come si può immaginare di scrivere a venticinque o trent’anni e farlo nello stesso modo a quasi settanta? Questo, ovviamente, vale per tutti gli autori che possono anche sputare sul pavimento della libreria e che comunque vedrebbero i loro ultras andare a comprare la “produzione”. Gli esempi potrebbero essere numerosi, ma visto che mi sto aizzando contro tre quarti della editoria italiana, tralascio l’elenco e almeno un quarto me lo tengo buono. Detto questo credo sia inutile dare le “stelline” a questo libro, formato da due esilissimi racconti che, a vedere la presentazione televisiva adorante di quel Mollica della sinistra che è Fazio, sembravano due capolavori imprescindibili e invece si rivelano per la ben povera cosa che sono. Certo, se un diciannovenne avesse scritto queste due “graziose operine”, non avrei organizzato il pistolotto che avete appena letto, probabilmente sarei stato molto più comprensivo e gentile. Alla luce della verde età, avrei potuto persino lasciarmi andare ad un banalissimo “si farà”, ma vista l’età di Benni l’unica cosa che forse si farà (addosso) ve la lascio immaginare.
Diego De Silva. La donna di scorta. Einaudi 1999, 2001 e 2014. 144 pag. 9.50 euro
Notando in libreria questo romanzo di De Silva (per me nuovo) non ho esitato a prenderlo e a portarlo alla cassa. Tutto ciò che ho letto di De Silva, e credo di aver letto tutto, mi ha sempre rallegrato lo spirito e non vedevo l’ora di cominciare a leggerlo. Purtroppo ne sono rimasto molto deluso, non ne ho capito il senso e la scrittura, che tende al vaneggiamento aforistico in più di un passaggio, come se la bellezza e/o l’originalità di una frase dovesse giustificarne l’assunto, il contenuto.
Anche in questo caso, per mettere subito in chiaro le cose, il romanzo inizia con questa frase:
“E’ curioso il modo che ha il destino di venire sotto forma di tempo. Anzi, lo sarebbe se non fosse che ce l’ha per vizio”.
Se qualcuno me ne vuole spiegare il senso gliene sarei molto grato, a me sembra una roboante cazzata. Ma anche in altri passaggi, in cui l’impeto di fornire sprazzi di originalità prende la mano all’autore, si possono leggere cose che non trovano collocazione nel sensato. Altro esempio:
“…uno di quei momenti in cui la città, sfinita da milioni di bisogni si prende una pausa. Uno di questi segnali è appunto la scomparsa del traffico. Ma guardandosi attorno si coglie la stessa indolenza, lo stesso senso di attesa nelle insegne dei negozi, sulle targhe dei professionisti, sui balconi dei palazzi, nell’aspetto appena un po’ più stanco dei pali della luce.”
L’aspetto un po’ più stanco dei pali della luce? Il senso di attesa sulle targhe dei professionisti?
Diego, domanda inevitabile: perché facevi colazione con lo stravecchio?
E tutte queste perlone, (ce ne sono altre ma ve le risparmio per delicatezza), oltretutto, sono la ciliegina su una torta di cui non si capisce il gusto. La vicenda narrata è quanto di più banale si possa immaginare (lui, lei e l’altra) e la definizione delle psicologie dei personaggi, la sola cosa che avrebbe potuto giustificare e nobilitare una storia simile, è a dir poco fumosa, approssimativa ai limiti della decenza. La buona notizia è che questo romanzo ha visto la luce nel ’99 e questa è una ristampa, quindi sappiamo per certo che De Silva ha straordinariamente affinato la sua scrittura e potrà di nuovo regalarci dei bei momenti di lettura come ha fatto con tutti gli altri suoi romanzi, a partire da “Certi bambini” per arrivare alle deliziose peripezie del suo avvocato Malinconico.
Recensioni di Daniele Borghi