Da questo mese su Slowcult prende il via una rubrica fissa: “Macchie d’inchiostro”.
Sarà pubblicata come primo articolo di ogni mese e sarà composta da recensioni di romanzi.
Da tempo, sulla “stampa ufficiale”, siamo abituati a leggere recensioni che sono un triste riassunto della quarta di copertina, uno schema della trama e, a volte, qualche notizia sull’autore. In pratica i nove decimi di quello che troviamo su questi articoli potremmo conoscerlo sfogliando il libro in esposizione: noi vorremmo fare qualcosa di diverso. Le nostre, visto che il libri le leggiamo davvero (cosa non consueta), saranno impressioni di lettura espresse in completa libertà e rifuggendo i toni accademici, come in una chiacchierata tra amici. Ovviamente saranno dichiaratamente soggettive, risentiranno di simpatie/antipatie, affinità elettive e tutte le altre cose che concorrono a formare una opinione personale che, ribadiamo, proprio per questo sarà opinabile e discutibile.
D’altro canto lo spazio per i commenti a fine articolo esiste proprio per questo, per scambiare opinioni…
Buona Lettura e… buoni commenti.
L’ironia della scimmia. Loriano Macchiavelli.
Oscar Mondadori, 2013. 322 pag. 10 Euro.
Per alcuni “giallisti”, soprattutto quelli nordamericani, il totem della credibilità è stato sostituito dai serial killer. Nella mente di un omicida seriale tutto può accadere e, di conseguenza, tutto ciò che fa è plausibile. In questo romanzo, Loriano Macchiavelli sostituisce il serial killer “deus ex machina” co altri motori narrativi: la CIA, i servizi segreti italiani deviati, i carabinieri cospiratori, gliagenti dello spionaggio inglese spietati e tossici… all’appello mancano soltanto la Spectre e Luciano Moggi. Non voglio dire che la verosimiglianza di un testo sia fondamentale, tutt’altro, ma se l’autore me lo vuole spacciare per credibile… inizio ad irritarmi. Il romanzo si legge con facilità, è quasi gradevole, ma quando si arriva alla fine, se si è romani, ci si domanda: “Ma che, davero davero?”.
In altre città d’Italia si useranno altre frasi fatte, ma il senso non cambierà. Oltre a questo, il buon Loriano non si preoccupa neppure di mettere in pista un personaggio di nuova concezione: un’altra volta SartiAntonioSergente, come al solito calato in un Bologna che non è più quella di una volta. Sono più di trent’anni che va avanti ‘sta storia. Con tutto il rispetto dovuto ad un monumento vivente del noir italiano, mi preme dirlo: che palle! Lo stesso Machiavelli dovrebbe essersi stancato di scriverne, ma invece pare proprio di no. Guccini, ti prego, tu che lo conosci e da quindici anni ci scrivi anche dei romanzi insieme: fermalo!
Non racconto la trama per pura bontà d’animo, ma per far capire quanto sia campato in aria un racconto del genere posso solo dire che tutto l’ambaradam orchestrato in più di trecento pagine, con tutti gli attori di cui scrivevo prima, trae origine da un manoscritto di Mussolini nel periodo di semidetenzione trascorso a L’Aquila. Queste pagine scritte a mano sono nascoste tra la tela e la cornice di un quadro. E qui ritorna la domanda di prima: “Ma che, davero davero?”.
Il bordo vertiginoso delle cose. Gianrico Carofiglio.
Rizzoli, 2013. 320 pag. 18,50 euro.
Sono stato molto dubbioso sull’acquisto del nuovo romanzo di Carofiglio poi, come non di rado accade, a causa della scarsità di interessanti novità libresche, l’ho preso e portato a casa. I dubbi più forti derivavano dalla lettura del suo penultimo (Il silenzio dell’onda. Rizzoli, 2011), un romanzo così inutile che Pepe Carvalho non l’avrebbe usato neppure per accendere il camino.
“Il bordo vertiginoso delle cose” è un romanzo che nulla aggiunge e nulla toglie a quanto già pubblicato da Carofiglio. Riprende e rimastica molti dei temi già affrontati in suoi precedenti lavori (“ Né qui né altrove”, del 2008, in particolare e “Il passato è una terra straniera” del 2004, più tangenzialmente). Il ritorno nella città di origine, i vecchi amici rivisti dopo un lunghissimo tempo trascorso senza nessun contatto, i ricordi che smuove tutto questo ecc. ecc.
Carofiglio cerca di fare un solo piccolissimo passo in direzione diversa e lo fa nel cambiare il punto di vista in alcuni brani. I ricordi sono narrati in prima persona mentre il dipanarsi al presente della vicenda è narrato da una seconda persona, un “tu” che cerca di rappresentare in modo ancor più straniato il rapporto del protagonista con la realtà che sta vivendo. Non è un’ideona, non è originalissima (scusate l’autocitazione, ma il mio “L’altra vita di Emma” del 2010 era tutto scritto in seconda persona) ma funziona e rende più godibile e facile da cogliere il passaggio dal presente al passato e viceversa.
In sintesi: se vi piace la scrittura di Carofiglio, questo romanzo non vi deluderà come il penultimo. Se invece amate essere sorpresi, amate le novità stilistiche e soprattutto tematiche, tenetevi lontani da questo lavoro, di questi aspetti non troverete neppure l’ombra.
Il silenzio dei chiostri. Alicia Gimenez Bartlett.
Sellerio, 2009. 527 pag. 15 euro.
Altra scrittrice seriale… Vabbè, lasciamo perdere i commenti, quello che avevo da dire su questo tipo di scrittori l’ho già fatto tempo fa. In questo caso, almeno, siamo molti gradini più in alto di moltissimi altri. Di nuovo le avventure dell’ispettrice Petra Delicado, quelle personali e quelle professionali, si intrecciano rendendo la lettura molto piacevole. I dialoghi sono arguti, divertenti, e la storia “poliziesca” – in questo caso ma anche in quasi tutti gli altri della serie- è articolata e compiuta. E poi, vivvaddio, la protagonista ha il grande pregio di non essere “simpatica”, di non voler essere politicamente corretta e di pensare spesso che fare la poliziotta non sia stata proprio una grande idea. E’ piena di spigoli, è spesso inutilmente polemica, ha un marito (in questo “episodio” è il terzo, sentimentalmente è un pelino irrequieta) che è una sorta di santo zen e lei non fa che stracciargli i coglioni in mille modi provocandolo e rendendogli la vita molto più difficile di quanto potrebbe essere. Il coprotagonista, il vice ispettore Fermin Garzon ha una carica vitalistica e semplificatoria che verrebbe voglia di invitarlo a cena quando si è trascorso una giornata di merda. E oltre a questo, è rozzo quando serve e arguto quando necessita, un compagno di lavoro (per lei) e di lettura (per noi) veramente divertente. Intendiamoci, non è alta letteratura, ma questo non significa che i romanzi della serie siano superficiali, tutt’altro. Questo come gli altri, alcuni più alcuni meno, ha una sua dignità letteraria ben definita. E’ preciso, attento alle sfumature, ha ritmo e tensione narrativa, le descrizioni non sono mai sciatte e l’intreccio è ben costruito e ben condotto sino ad un finale non prevedibile. In sintesi: una buonissima lettura per i giorni in cui, agli amici veri, avete voglia di incontrarne alcuni di carta.
Joshua allora e oggi. Mordecai Richler.
Adelphi, 2013. 466 pag. 20 euro.
E’ assolutamente certo che io, per motivi personali, abbia dei problemi con Adelphi, ma trovando in libreria il nuovo (per noi italiani) romanzo di Richler e leggendone il risvolto di copertina, mi è venuta voglia di andare a dare uno schiaffone a chi l’ha scritto (non so chi sia) e a chi l’ha approvato (molto probabilmente Roberto Calasso).
Il suddetto risvolto inizia in questo modo: “Quasi nulla piace ai lettori di Mordecai Richler quanto addentrarsi nell’albero genealogico di Barney Panofsky, sperando prima o poi di imbattersi nel vero progenitore romanzesco di uno dei personaggi più amati…”.Come diceva un presentatore televisivo di qualche anno fa, la domanda sorge spontanea: ma chi l’ha detto? Mordecai Richler è (era, purtroppo) senza dubbio uno scrittore dal talento immenso. Possiede una scrittura pirotecnica, esplosiva, scintillante. I suoi romanzi sono detonazioni di narrativa che si espandono nello spazio-tempo del presente ma addentrandosi nel passato e spesso nel futuro. E questi idioti mi vengono a dire che mi interessa “imbattermi nel vero progenitore romanzesco di uno dei personaggi più amati…” ? Ma come gli funziona il cervello? Cosa mi vogliono vendere, una telenovelas sudamericana? Poi si lamentano che in Italia i lettori sono sempre meno: con questa accuratezza e profondità nel proporre un romanzo del genere è già tanto che qualcuno entri ancora in libreria. Comunque, sfoghi editoriali a parte, “Joshua” è un romanzo monumentale. I temi sono quelli consueti della narrativa ebraica dell’America del nord, ma se spesso questo “filone” ormai mostra la corda, Richler lo nutre con un approccio ipercinetico, quasi ipertestuale, come un Philip Roth sotto anfetamina. Non di rado la narrazione si disperde in rivoli secondari – ipertestuali, come ho già scritto- quasi a voler costruire e delineare personaggi che ben poco hanno a vedere con la vicenda esistenziale di Joshua, ma che sfiorandola meritino di essere posti sotto la luce dell’impietoso riflettore di Richler. Nel testo si incontrano dialoghi durissimi e brani molto delicati, pagine di sarcasmo urticante ed altre di umana comprensione per i poveri personaggi costretti a viverci dentro. A causa di queste acrobazie di tematiche e di approccio, non è difficile sentirsi rimbalzare nel romanzo come la pallina di un flipper sovralimentato, ma se si lasciano scorrere le pagine lentamente, apprezzandole per la prosa mai banale e spesso geniale, e non desiderando troppo di “vedere come va a finire”, la lettura sarà sicuramente di grande godimento. E alla fine ci si troverà ad essere compagni, amici di Joshua e ad essere cresciuti con lui, come se la sua esperienza di vita ci fosse stata regalata in modo da poterne fare tesoro. Non credo sia poco.
Fauci. Nicola Gardini.
Feltrinelli, 2013. 192 pagine. 16 euro.
La quarta di copertina di questo libro, scritta dall’autore, inizia così:
“Volevo scrivere un romanzo divertente, veloce, un’opera buffa, ma anche un po’ tragica. Qualcosa che avesse lo humour di Vargas Llosa e la facilità di Isherwood, e proseguisse la mia indagine sulla cattiveria e l’ipocrisia in una chiave inedita…”.
Da uno che si presenta così capisci immediatamente una cosa: l’urgenza creativa non è alla base del suo scrivere, più che altro sembra si stia accingendo a preparare un cocktail. Ma se fosse un grande autore potrebbe comunque ammaliarti con il fascino della sua prosa, con un ritmo serrato o piacevolmente lento, maestoso. Purtroppo no, non è questo il caso.
Tutto il romanzo procede con lo stesso passo, la scrittura è più piatta della Val Padana da cui proviene l’autore, una volta finito di leggere non rimane in mente nulla che valga la pena di essere ricordato e il testo, neppure in una sola occasione, riesce a strappare un sorriso. Visto che nelle intenzioni dell’autore c’era un’opera buffa, ho paura che il progetto sia naufragato.
La trama, se così si può chiamare, è facilmente riassumibile parafrasando Totò: “Sono un uomo di mondo, ho fatto il militare a Milano”. Il principe De Curtis citava Cuneo, Gardini si è dato un tono più alto. In sintesi: il protagonista parte per il servizio militare e, già dal viaggio in treno per raggiungere il CAR, incontra un esponente dell’alta borghesia milanese che lo introduce nella sua famiglia e nel suo ambiente. Quest’ultimo è rappresentato con una superficialità, una sciatteria e una banalità che rasenta l’insulto a chi legge. Sarei più incline a giustificare l’assoluta inutilità di questo romanzo soltanto se Gardini giurasse che è una storia completamente autobiografica.
Mi spiego meglio. Come disse John Entwistle, il bassista degli Who, “Suonare della brutta musica che si è scritto non è così male, è come sentire l’odore delle proprie scorregge, in qualche modo è rassicurante”. Ecco, se la storia del protagonista fosse quella vissuta da Gardini, sarei meno severo. Come moltissimi esseri umani molesti, sarebbe stato portato a pensare di avere qualcosa da raccontarci, di avere qualcosa di interessante da comunicare, una parte della sua esistenza di cui renderci partecipi. Ma non credo sia così, e quello che da ancor più infastidisce è la complicità di Feltrinelli in questa operazione. Da una casa editrice che per anni (ormai purtroppo lontani) è stata un punto di riferimento per la qualità del suo catalogo, la pubblicazione di questo romanzo assolutamente irrilevante da ogni punto di vista, è un imperdonabile passo falso.
Per non parlare dei sedici euro. Se non fosse chiaramente presente la complicità dell’acquirente il codice penale lo definirebbe furto con destrezza.
A cura di Daniele Borghi