Davide Zaccagnini. Moving Boxes
L’Asino d’oro, 2014. 157 pag. 12 euro
Anche se questo testo ha soltanto lontane parentele con un romanzo, nulla toglie alla piacevolezza della scrittura e, di conseguenza, della lettura. La quarta di copertina, in effetti, lasciava presagire quanto appena scritto, ma non così palesemente, il romanzo poteva anche essere d’altro tipo.
Tutto ruota intorno alla sensazione di inadeguatezza professionale percepita da un chirurgo vascolare, non soltanto per ciò che riguarda la sua specializzazione, ma più complessivamente per tutta la medicina e la capacità diagnostica di ogni medico. Questo muove prima riflessioni, poi studi specifici e ancora dopo la ricerca di un metodo diagnostico oggettivo supportato da un sistema informatico.
Riassunta in questo modo potrebbe sembrare una cosa molto noiosa, ma quello su cui più ci intrattiene Zaccagnini non sono la ricerca e l’informatizzazione del metodo ma le riflessioni, più filosofiche che scientifiche, da cui hanno origine.
Naturalmente la capacità di scrittura risulta fondamentale. E’ evidente che gli stessi argomenti, trattati da un autore meno dotato, sarebbero stati estremamente noiosi, ma Zaccagnini, per fortuna, ha dalla sua precise abilità: sa ben scrivere, ben spiegare ed è capace di rendere accessibili argomenti ostici senza scivolare nel semplicistico. Naturalmente, non essendo un medico e neppure un informatico, non ho la capacità di valutare la parte tecnica del lavoro, per quanto ne so potrebbe essere una cosa da doppio premio Nobel oppure un’immensa idiozia, quel che mi permetto di valutare è la capacità di rendere tutto questo qualcosa di molto simile alla letteratura.
Non credo sia necessario aggiungere altro, posso solo consigliare questo smilzo libretto che ha dalla sua una grande forza espressiva incanalata in un ben preciso ambito scientifico: non mi pare sia poca cosa.
Stefano Piedimonte. L’assassino non sa scrivere
Guanda, 2014, 248 pag. 17 euro.
Dopo aver letto questo romanzo che mescola senza alcuna sapienza il giallo più corrivo e banale, il macchiettistico/provincialistico più trito, alcune rimasticature di Benni (che oltretutto già si rimastica da solo), con una scrittura ben oltre i limiti del sopportabile, degna di un liceale molto scarso, parafrasare il titolo e sostituire l’autore all’assassino è la prima idea che viene in mente.
E non è, come scriveva Palahniuk in uno dei suoi migliori romanzi, “la prima cosa che viene in mente anche se non è quella giusta”: oltre ad essere giusta è anche l’unica.
Negli ultimi anni mi ero raramente imbattuto in un romanzo così mal concepito, mal scritto e pessimamente editato. Ad esempio, dov’era l’editor quando l’autore infilava intere biografie nelle attribuzioni? (Per chi non o sapesse le attribuzioni solo quelle micro frasi che indicano chi ha detto cosa, come ad esempio “chiese Tizio” o “rispose Caio”). Riuscite a immaginare una biografia all’interno di un dialogo? Beh, Piedimonte c’è riuscito. Devastando il ritmo dei dialoghi e le balle dei lettori, però c’è riuscito. Forse voleva essere il primo al mondo a portare a termine questa bella impresa, altri motivi non so trovarne. In questo testo ho trovato cose che mai avrei potuto immaginare di leggere nelle pagine di un editore importante come Guanda.
Non riesco a salvare nulla, ci ho provato, ma non ho avuto fortuna e devo essere sincero sino in fondo: non sono riuscito ad arrivare alla fine. La sofferenza era troppa. So che da uno che scrive recensioni ci si aspetta che almeno legga tutto, ma sono reo confesso: non ce l’ho fatta. Forse, se mi avessero pagato moltissimo, sarei andato avanti fino all’ultima pagina, ma gratuitamente no, aveva troppo sapore di autoflagellazione.
Che altro dire? Solo una raccomandazione: se avete a cuore il destino dei pochi che ancora razzolano tra le librerie e volete essere buoni, quando su un bancone vi imbatterete in questo libro cercate di nasconderlo, occultatelo sotto una pila di BruniVespi o di AlessandriBaricchi, così quel che verrà dopo di voi non rischierà di portarlo a casa come ho fatto io. Quando ci ripenso ancora m’incazzo: 17 euro!
Bompiani, 2014. 406 pag. 19 euro
In teoria questo romanzo dovrebbe essere il sequel di “Caos calmo”, in realtà un testo perfettamente autonomo, la sola parentela che li lega è il nome del protagonista. Tutto il resto, fatta eccezione per un finale a metà tra il catartico e il confuso, non ha una vera relazione relazione con il libro precedente. Forse, alla luce del successo di “Caos calmo”, far uscire un romanzo con protagonista Pietro Paladini, andarlo a scovare una decina d’anni dopo averlo lasciato davanti alla scuola della figlia, è solo una trovata pubblicitaria o forse no, non lo so e non mi interessa saperlo. L’importante è che quest’ultimo romanzo di Veronesi ha una sua perfida potenza, una capacità sotterranea di penetrazione che non è facile incontrare e, soprattutto, non ha per nulla l’aria di un romanzo scritto solo per far soldi… oppure l’autore è davvero molto bravo a nasconderlo.
Come sempre, e soprattutto quando ci si va a confrontare con un autore maturo, l’intreccio è importante ma non fondamentale, molto si regge sulla scrittura, sulla maniera di rappresentare una realtà presente soltanto nella mente dello scrittore. L’aspetto che più impressiona in questo testo è la capacità di Veronesi di scrivere al di fuori dei soliti schemi prefissati. In pochi, alle prese con il protagonista che sta per leggere una mail in cui gli verrà spiegato il motivo per cui si trova in una situazione molto difficile, possono permettersi una digressione di tre o quattro pagine senza che il lettore lo odi profondamente. La caratteristica principale del testo è proprio questa: brusche accelerazioni e altrettanto brusche frenate. Interi capitoli composti soltanto da “trascrizioni” di telefonate alternati a capitoli di ricordi, associazioni di idee, riflessioni. Certo, se sì è abituati a leggere romanzi che si basano sul voltapagina ossessivo questo testo non piacerà, come potrà non piacere a chi fa della lettura un’oasi di lentezza e riflessione, ma l’alternarsi dei ritmi è esattamente ciò che ha deciso di fare Veronesi, è molto evidente. E a suo indubbio merito va sottolineato che, pur avendo raggiunto una notorietà che gli consentirebbe di vendere al di là della qualità dei testi, si impegni a non rifarsi il verso, a cercare nuove strade, anche rischiando di prendere cantonate come è accaduto con “XY”, che a distanza di anni ancora non ho capito. In sintesi, questo è un romanzo che non trascura l’aspetto commerciale ma non per questo rinuncia ad essere strutturalmente originale e a lasciare un preciso marchio di qualità. Sono pochi gli scrittori molto affermati che ancora sudano sulla tastiera quando venderebbero le stesse copie scrivendo con la mano sinistra mentre giocano a Monopoli…
Michel Houellebecq. Sottomissione.
Bompiani, 2015. 252 pag. 17.50 euro
Della campagna pubblicitaria di cui ha involontariamente goduto questo romanzo, “Macchie” non è certamente il luogo adatto per discutere. Di sicuro c’è che, alla fine della giostra infame di attentati, sparatorie, sequestri di persone e speciali su giornali, riviste e TV, si legge il romanzo che è stato in qualche modo associato a questi fatti e… non ci si trova nulla. Naturalmente non mi sto riferendo alle vicende parigine, sto parlando di scrittura, di analisi sociologica e, molto più in generale, a tutto ciò che poteva essere attinente al fenomeno di islamizzazione dell’Europa.
A parte la “trovata” (e anche questa puzza di petardo pubblicitario) di far eleggere un rappresentante dell’Islam alla presidenza della repubblica francese, con ovvie ripercussioni sulla società francese, nulla è detto e tantomeno approfondito su come la Francia giunga ad una simile svolta non solo politica ma soprattutto culturale. Tutto il processo viene dato come inevitabile, come l’inarrestabile epidemia di una malattia fortemente contagiosa, niente di più. Con lo stesso superficiale approccio si potrebbe immaginare un ritorno allo jus primae noctis o al rogo per gli eretici, non farebbe differenza: se l’intento è quello di far nascere uno spunto narrativo, uno vale l’altro. Affidando l’illustrazione della situazione ad un personaggio secondario l’autore ci commina una pesantissima disquisizione su tattiche dei partiti ed equilibri di forze in campo, più o meno lo stesso materiale con cui è costruita qualsiasi puntata di un qualsiasi talk show “di approfondimento politico” che da decenni infesta le nostre serate televisive.
Il protagonista, invece, è un professore universitario che ha incentrato la sua vita sullo studio delle opere di un non famosissimo scrittore francese, Huysman, noto soprattutto per avere aperto la strada al romanzo decadente. Questo fornisce qualche indizio sugli intenti di Houllebecq, ma la noia procurata dalle dissertazioni sull’opera di Huysman è, a dir poco, imperdonabile.
Sono stato per molti anni un accanito sostenitore di Houllebecq, quasi un tifoso da curva. Anche negli ultimi suoi lavori, in cui spesso si inciampava nella ripetitività dei temi e riproposizione continua dello stesso approccio, ho sempre trovato spunti di riflessione e sprazzi di genialità, ma in questo “Sottomissione” non sono riuscito a stanare nulla di interessante. E’ un romanzo povero di idee, di profondità e di accuratezza, c’è ben poco altro da dire. Forse il successo e i complimenti raccolti a piene mani durante la sua carriera hanno convinto che gli sia sufficiente stazionare davanti alla tastiera per ottenere risultati importanti, purtroppo non va così, qualcuno dovrà dirglielo.
Leggere frasi come “mi sentivo triste da morire” in un romanzo di Houllebecq è come trovare una bestemmia in un breviario, come andare dal fornaio per comprare un pane fresco e croccante e trovarsi a tavola con in mano una cosa stantia e piena di muffa. I tempi de “Le particelle elementari” e di “Piattaforma” sono veramente molto lontani nel tempo, nella creatività, nella profondità e nell’acutezza. Ho scarsa fiducia che possano tornare, ma non voglio precludermi questa speranza, anche se con scarsa convinzione alla prossima uscita sarò in libreria a comprare il nuovo di Houllebecq, com’è universalmente noto la speranza è l’ultima a morire.
Edizioni Clichy, 2014. 312 pag. 17 euro.
Inizialmente non è facile districarsi nei molti registri di questo romanzo, ma quando si inizia a capire che aria tira la lettura diventa piuttosto agevole. Spesso si ha l’impressione che più di qualche strizzatina d’occhio sia rivolta al pubblico delle “Sfumature”, altre volte a quello di Liala, altre a quello del giallo noir alla francese ed altre ancora a quello che vuol essere rassicurato da storie e racconti già predigeriti, un po’ come le canzoni del festival di Sanremo.
Il guaio è che tutti questi aspetti, sono portati sopra le righe del loro pentagramma e, di conseguenza, raramente riescono a fondersi con armonia e compiutezza. I personaggi sono sostanzialmente monodimensionali e quando escono dalla loro “casella” lo fanno in modo inspiegabile e, di conseguenza, non accettabile. Gli uomini sono tutti, senza alcuna esclusione dei poveri squilibrati (i tre quarti sono pronti per la camera imbottita e la camicia di forza) mentre le donne hanno tutte fascino, magnetismo e attrattive sessuali che le rendono a dir poco irresistibili. Io apprezzo gli autori che si schierano, ma così, in questo modo banale, lo schierarsi mi sembra a metà tra il rozzo e il controproducente.
Quando in un romanzo come questo, senza un’ombra di ironia, si inizia un capitolo con: “Tutto cambia quando si ama. Tutto. Ogni boccata d’aria che si respira contiene concentrata la felicità che si diffonde nelle più infime e segrete parti del corpo. Il tempo si ferma, il tempo accelera…” ho paura che si sia perso completamente il controllo della scrittura. So che estrarre brani dal contesto non è mai correttissimo, ma mi sembrava doveroso fare un esempio del tipo di registri si tocchino. Avrei potuto fare lo stesso con i brani che descrivono con minuzia entomologica i mirabolanti rapporti sessuali (etero, lesbo, orgie, ecc. ecc) ma quelli avrebbero occupato ben più dello spazio che ho a disposizione. Quel che voglio dire è che questo romanzo è privo di originalità di scrittura, di interesse della vicenda (che fa acqua da tutte le parti) e, dulcis in fundo, non riesce minimamente a trasferire una qualsiasi forma di pathos al lettore.
Che si può dire di peggio? Ah, sì, visto che quest’autrice viene presentata dai suoi editori come “una delle più forti voci del femminismo con i tacchi a spillo” sono costretto a comunicare all’autrice e ai sopracitati editori che l’effetto più grande di questo romanzo è quello di far rimpiangere le femministe degli anni settanta, quelle con gli zoccoli neri, il patchouli e le gonne larghe come tendoni da circo. Ecco, da questo punto di vista, un merito a ‘sto romanzaccio sono riuscito a trovarglielo.
recensioni di Daniele Borghi
Caro Daniele, i tuoi commenti sono sempre intelligenti e divertenti, ma si leggono tra le righe anche cose molto serie. Ho letto a suo tempo Caos calmo, un libro che è molto piaciuto ai miei amici, persone che stimo e con le quali mi trovo sulla stessa lunghezza d’onda. Invece a me non ha suscitato nessuna emozione, solo un vago senso di irritazione e una specie di rifiuto. La stessa cosa mi è successa con qualche libro di Ammanniti, per non parlare dell’Eleganza del riccio, un’operazione inautentica costruita a tavolino. Potrei citare a quest’ultimo proposito altri casi, ma almeno meno snobistici e falsintellettuali…mah, forse sono io un po’ complicata…