Mag 032015
 

Massimo Carlotto. La banda degli amanti. Edizioni E/O, 2015. 208 pag. 15 euro.

★★☆☆☆

Massimo Carlotto. La banda degli amantiPer molti anni Carlotto è stato uno degli scrittori che ho letto con maggior piacere. “Il fuggiasco” e “Le irregolari”, ad esempio, sono romanzi densissimi che donano al lettore una profonda immersione nei mondi narrati. La sua scrittura asciutta, vigorosa, che non si ritraeva di fronte alla realtà ma cercava di penetrarla con una narrativa a serramanico e la sua avventurosa biografia che spesso traspariva in filigrana lo avvicinavano al mio modo di progettare e pensare l’espressione letteraria. Da qualche tempo, a partire dallo scipito “Nord est” scritto a quattro mani con Beppe Videtta, per poi proseguire con il ciclo delle “Vendicatrici” e arrivare a quest’ultimo, dai suoi testi ricevo l’impressione di una narrativa di maniera, non più animata da quel furore che riuscivo a cogliere in precedenza. Essendo essenzialmente impressioni di lettura, è anche possibile che io mi sia in qualche modo “abituato” alla sua scrittura e ne percepisca meno l’impatto emotivo, questo è molto complicato da mettere a fuoco, ma ho la netta sensazione che Carlotto si sia pacificato con il mondo. Se questo può far piacere per la persona ( se si conosce la sua biografia non si può fare a meno di solidarizzare e simpatizzare con Carlotto) non altrettanto si può dire per i frutti della sua attività letteraria. Non costringerò nessuno a subire la consueta e micidiale tiritera sull’artista che raggiunge i migliori risultati quando ha dentro di sé inquietudine, dolore e sofferenza, ma ho la netta sensazione che sia proprio questo il caso.

In questo romanzo, forse nel tentativo di dare forza e appeal ad un testo che non ne possiede moltissima, Carlotto fa addirittura incontrare i personaggi delle sue “serie” più lette e fortunate: l’Alligatore, un investigatore free lance senza licenza e Giorgio Pellegrini, l’anima nera di altri tre suoi romanzi da cui sono stati tratti anche dei buoni film. Nonostante questo storia e scrittura non decollano, camminano, al massimo corricchiano. Al di là dell’evidente intento commerciale, che di per sé non è un delitto, questa sorta di serie al quadrato mi sembra una dichiarazione di debolezza. A volte sembra che i capitoli siano una scaletta messa lì a lievitare nella speranza di un risultato decente, senza troppa partecipazione emotiva dell’autore e senza neppure preoccuparsi delle più basilari tecniche “giallistiche”. Non so, è possibile che da un autore che si è molto stimato ci si aspetti troppo, come da un amico di lunga data ci si aspetta sempre attenzione e comprensione, ma dopo aver concesso più volte il beneficio del dubbio, le attenuanti del caso e anche la condizionale, stavolta sono deluso sul serio.

Aldo Busi. Vacche amiche. Marsilio, 2015. 177 pag.15 euro

★★½☆☆

Aldo Busi, Vacche amicheParlare, o addirittura cercare di dare un parere su un testo di Busi, soprattutto di uno di quelli degli ultimi anni, è come cercare di afferrare e tener ferma un’anguilla che ha nuotato nell’olio. Se questo per certi versi può essere un grande pregio di di uno scritto, al tempo stesso è un formidabile limite per chi ne deve in qualche modo scrivere per dare una indicazione. Oltre a questo, quasi a prenderci in giro, il sottotitolo “Un autobiografia non autorizzata”, cerca di portare sulla strada sbagliata già dalla copertina. In realtà la parentela con una biografia “classica” sono le stesse che può avere un serpente con una tartaruga, decisamente molto molto lontane.

La prima impressione che si riceve da quest’opera è la straordinaria capacità di scrittura e di affabulazione del suo autore. Sono fermamente convinto che pochissimi autori al mondo siano all’altezza di Busi nella capacità di trasformare le parole in letteratura e le frasi in capolavori di cesello. Il problema serio è che Busi ne è perfettamente consapevole e, comportandosi letterariamente come una persona che conscia della fascinazione che esercita sugli altri ne fa un uso smodato, alla lunga riesce ad infastidire. Sulla scrittura di Busi non si può eccepire nulla, è semplicemente perfetta. Raggiunge vette altissime per poi, subito dopo, abbassarsi citando aneddoti in dialetto bresciano, discetta di letteratura con competenza e profondità e dopo poche righe scivola nel gossip più corrivo, alternando toni e registri apparentemente inconciliabili con una maestria quasi disumana, ma alla fine del testo ci si domanda: di cosa mi ha parlato Busi? E la risposta salta in mente senza ombra di dubbio: di sé stesso. So bene che ogni autore, quando si va a filtrare e decantare un testo, parla sempre di sé stesso, è inevitabile, ma qui non c’è un minimo di trasfigurazione e di elaborazione. Il proscenio è sempre occupato dalla persona, e questo non perché sia, per quanto sui generis, una autobiografia. E la persona non è simpatica, anzi, è sostanzialmente un pallone gonfiato che non vien mai sfiorato da un dubbio, un’incertezza, uno smarrimento. Non si può evitare di annoiarsi nel leggere per tutte 177 pagine di quanto sia intelligente Busi, quanto sia onesto Busi, quanto sia colto Busi, come sia incorruttibile Busi, come non ceda mai a compromessi Busi, di quante spanne si elevi sugli altri Busi ecc. ecc.

Tra i venditori di tutto il mondo circola un luogo comune che, più o meno, esprime questo concetto: il cliente ama parlare di tre cose: di sé, di sé e di sé. Ecco, Busi incarna perfettamente questo stereotipo, e lo rende ancora più faticoso da tollerare perché, oltre a parlare di sé, lo fa in tono apologetico. Forse, nella sua immensa immensità, Busi si è più che sufficiente e non ha interesse a volgere lo sguardo fuori da sé stesso, ma sono certo che se un giorno riuscirà di nuovo a farlo (i suoi primi due romanzi sono assoluti capolavori) sarà in grado di produrre testi indimenticabili e profondissimi. In questo non c’è riuscito.

Davide Machado. Indice medio di felicità Neri Pozza, 2015. 267 pag. 16.50 euro.

★★☆☆☆

Davide Machado. Indice medio di felicitàNon c’è modo di sbagliarsi: il fulcro narrativo di questo romanzo è la capacità di tentare di superare le difficoltà, con ostinazione, ad ogni costo e con ogni mezzo, siano esse materiali, tangibili o psicologiche. In un Portogallo lacerato dalla crisi economica e dalla disoccupazione che ne consegue, tre amici, pur mantenendo un legame a distanza che sembra comunque indissolubile, reagiscono in maniere molto diverse. Daniel, l’io narrante, si dibatte tra mille difficoltà e si rivolge con un colloquio immaginario ad Almodovar, detenuto per una tentata rapina e il terzo, Xavi, è prigioniero in casa propria, segregato dalla propria agorafobia e dai suoi disturbi mentali.

Daniel narra immaginando le interruzioni, le obiezioni e le osservazioni dell’amico detenuto con cui non ha più contatti da anni e ci racconta soprattutto la sua vita complicata e umiliata ma anche di Xavi e del figlio di Almodovar, Vasco, un sedicenne anche lui in palese difficoltà esistenziale.

Com’è fin troppo facile intuire, il romanzo è tutt’altro che allegro, è anzi cupo, dolente e afflittivo. Se in quelle vite c’è qualcosa che possa andar storto potete star certi che ci andrà, non ci può essere dubbio, e quando qualcosa sembra prendere una piega positiva saranno le circostanze, il destino o la testa bacata di qualcuno a farla sterzare verso la negatività.

L’autore, affidando la narrazione a Daniel, che a dispetto di tutto mantiene viva la speranza che tutto possa essere aggiustato e rimesso in ordine, prova a controbilanciare la profonda cupezza del testo innestando anche delle piccole prove di composto lirismo, ma pur apprezzando il tentativo mi pare che il risultato non sia raggiunto. Una infinità di difficoltà, guai, decadimenti psichici, intralci e coincidenze negative popolano fittamente il testo, brulicando come formiche su una goccia di miele.

Immagino che l’intento dell’autore fosse quello di trasmettere l’idea che la speranza, indipendentemente da tutto, sia la sola salvezza possibile, ma gliene è mancata la capacità trasfigurativa, quello che scatto che potesse trasformare una dichiarazione di intenti in una rappresentazione letteraria. Questa mancanza, questo balzo in avanti, rende spurio il testo, lasciando al termine della lettura un sapore che non convince e fa apparire lo sguardo ostinatamente fiducioso di Daniel come una pennellata di vernice annacquata passata su vite devastate dalla ruggine della disperazione.

Marco Missiroli. Atti osceni in luogo privato. Feltrinelli, 2015. 249 pag. 16 euro.

★★½☆☆

Marco Missiroli, Atti osceni in luogo privatoCon questo romanzo Missiroli marcia su un percorso battuto migliaia di volte. Il testo, infatti, non è altro che un classicissimo “romanzo di formazione” che, anche nella sua partizione strutturale, non si discosta di un millimetro da quanto già molte volte letto. Se questo appare subito come un evidente limite, va sottolineato e apprezzato come l’autore sia riuscito a dare una buona prova di scrittura e di lettura degli avvenimenti con cui il protagonista è chiamato a confrontarsi. Anche in questo caso nulla di particolare costella la sua esistenza: amori più o meno felici, importanti e consapevoli, la scuola, i primi lavori, la morte delle persone care, insomma tutto il repertorio più classico. Neppure la scrittura ha particolari guizzi o originalità, ma riesce comunque a farsi apprezzare e a dare piacevolezza alla lettura.

Non saprei dire in cosa risieda esattamente il piacere della lettura, non sono riuscito a capirlo con precisione. Sicuramente il testo non è ansiogeno, è cesellato con cura e da al lettore alcuni punti di riferimento che non tradiscono, ma questo, valutato da un altro punto di vista, potrebbe anche essere un difetto. Chi segue questa rubrica sa benissimo che le mie non pretendono di essere valutazioni oggettive (d’altro canto chi può arrogarsi tale diritto?) ma soltanto impressioni di lettura. E’ molto probabile che questo testo abbia incrociato la mia strada in un momento in cui non avevo bisogno di essere stimolato all’ansia e anzi, al contrario, avessi voglia di qualcosa di calmo, rilassato, piano, un romanzo non pretenzioso e che dichiarasse le sue buone intenzioni sin dalla prima pagina.

Se un appunto si può fare a questo testo è la lettura della “formazione” di un individuo attraverso una serie di esperienze sessuali. Non è certo l’unico aspetto della crescita che viene affrontato, ma l’impressione è che venga dato troppo rilievo a questo tipo di esperienze, come se la strutturazione di un individuo passi attraverso quel che accade tra le lenzuola e in minor misura da tutto il resto della vita. Può darsi che l’autore abbia una sensibilità rivolta in questo senso oppure, volendo essere molto maligni, potrebbe essere un atteggiamento di tipo commerciale: in un periodo in cui cibo e sesso sembrano essere gli unici argomenti “base” che interessano l’umanità, far brillare lo specchietto del sesso può essere sembrata una buona idea.

Frank Conroy. Stop-Time. Fandango Libri, 2014. 350 pag. 19.50 euro

★★☆☆☆

Frank Conroy, Stop-TimeQuest’autobiografia di Conroy ha senza dubbio un approccio originale. Pur mantenendo una linearità cronologica procede per balzi, per scene, come se soltanto i ricordi più vividi dell’autore, quelli che maggiormente hanno lasciato marchi nella memoria, potessero avere l’onore di comparire nel testo. In alcuni brani, probabilmente per volerne sottolineare la nitidezza del ricordo, la narrazione passa dal consueto passato remoto ad un presente che fa percepire gli accadimenti “in presa diretta”, come se i fatti si svolgessero in quel momento. Dal punto di vista strutturale, il procedere per scene spesso non raccordate tra loro, costringe il lettore all’attenzione e alla necessità di riaccordare il proprio “la” allo strumento che l’autore ha cambiato senza porlo prima in allarme.

L’attenzione riservata alla insolita struttura, non è di pari livello a quella dedicata alla scrittura che non presenta nessuna eccezionalità. Se essa sia frutto di un potente tentativo dell’autore di “distaccarsi” dalla propria vita, un tentativo che lo ha portato a raccontare da estrema distanza le proprie vicende, o se questa sia la modalità espressiva di Conroy, avendo letto soltanto questo testo, non so dirlo. Sta di fatto che l’impressione generale è che, pur narrando in prima persona, l’approccio sembra quello di un autore che rimanga freddo di fronte dalla materia trattata, che non cerchi mai di approfondire l’aspetto psicologico degli avvenimenti narrati e di come questi facciano eco e si riflettano nell’intimo del protagonista.

Il testo termina con quella che è una pietra miliare nella vita di ogni studente americano: l’ammissione al college dell’autore, e questo sembra voler sottolineare che, da lì in poi, l’esistenza di Conroy sarebbe stata diversa, imboccando una strada che lo avrebbe portato lontano dalla vita difficile e complessa fin lì affrontata. In estrema sintesi si può dire che il testo risulta discontinuo (e non è detto che sia un difetto), altalenante, piuttosto freddo e quasi compilativo, come se Conroy fosse stato mosso dal desiderio di mettere in ordine i ricordi piuttosto che di renderli letterariamente interessanti. Essendo un’autobiografia, per quanto limitata agli anni della formazione, questo non può che stupire: chi meglio dell’autore avrebbe potuto raccontare quel che è accaduto dentro di lui?

 

Simona Morani. Quasi arzilli . Giunti Editore, 2015. 176 pagine. 12 euro

★☆☆☆☆

 

Simona Morani, Quasi arzilliE’ quasi imbarazzante dover scrivere qualche riga su questo romanzo. Già dal titolo, che scimmiotta un non recentissimo film di successo ci si imbatte in una sorta di dichiarazione d’intenti che somiglia ad una resa: questo libro non ha alcuna originalità, neppure nel titolo. La vicenda è quanto di più esile si possa immaginare, sostanzialmente non esiste e tantomeno esiste un intreccio, una trama che possa dare al lettore qualcosa che lo spinga a leggere le pagine che seguono.

E poi, diciamoci la verità: dopo Malvaldi che ha fatto bingo con i vecchietti del BarLume, con serie tv e vendite a carriolate, con quale faccia tosta un autore può mettere insieme un romanzo con gli stessi identici elementi? O se ne è completamente all’oscuro, e credo sia molto difficile, oppure più che faccia tosta occorre aver lasciato la vergogna nel pancino della mammina.

Almeno nei romanzi di Malvaldi (per quanto abbia iniziato ad annoiare anche lui) c’è la scusa di una indagine sui generis, la storia similgialla che lega situazioni, fatti e dialoghi. Qui non c’è nulla. Solo una serie di banalità, macchiette noiose e mal riuscite, personaggi piatti come un lago senza vento. Non una battuta, un risvolto inatteso. Niente.

Neppure nella scena clou, quella che, mi permetto di immaginare, secondo l’autrice avrebbe dovuto avere il maggiore pathos, raggiungere le più alte vette del climax, Morani riesce a copiare il finale di “Thelma e Louise”.

E qui il discorso volontario-involontario si fa difficile da sostenere: chi non ha visto quel film? Un marziano? Se fossi un critico letterario meno raffinato e non avessi sempre un perfetto aplomb da lord inglese mi verrebbe da esclamare: “E che cazzo! Ma lo fai apposta?”

Viene da chiedersi perché un autore senta la necessità di scrivere un romanzo del genere. Dove può risiedere l’urgenza narrativa di queste pagine? E in questo caso non c’è neppure la scusa di un romanzo di routine o di serie di uno scrittore affermato che scriva per denaro o per dovere contrattuale: è un’opera prima. Proprio non riesco a capire.

rubrica a cura di Daniele Borghi

  One Response to “Macchie d’inchiostro: letti nel mese di aprile 2015”

  1. Salve.
    Non ho letto questo libro di Carlotto, ma anch’io ho apprezzato moto “Le irregolari” e “Il fuggiasco”, oltre ai vari romanzi con l’Alligatore come protagonista. Ho però letto il penultimo (credo) romanzo, “Respiro corto” e anche questo mi è sembrato decisamente inferiore agli altri.

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