Stephen King. Doctor Sleep. Sperling & Kupfer. 516 pag. 19.90 euro.
Commentare quest’ultimo romanzo di King non è compito facile. I fan più accesi lo accoglieranno senz’altro positivamente perchè tutti gli elementi classici della sua narrativa sono ben presenti, elevati a potenza e inseriti in una struttura che non fa una grinza, ma immagino che tutti gli altri lettori, quelli meno “tifosi”, non ne saranno entusiasti.
Io, che sono un fan “a metà”, non so esprimere un giudizio preciso. Preferisco di gran lunga il King più verista, quello che narra storie non imperniate su poteri paranormali, fantasmi, telepatia, streghe, splatter, zombie, demoni e tutto il repertorio dell’horror. Alcuni dei suoi romanzi senza “effetti speciali”, e per primi mi vengono in mente “Misery”, “Dolores Clayborne”, “Le ali della libertà” e “Stand by me”, ma ne potrei elencare altri, sono poderosi da ogni punto di vista e non credo sia
un caso che da questi siano stati tratti dei buoni film. Quando invece concepisce storie con molti degli elementi di cui sopra fatico a stargli dietro, ho l’impressione che stia imboccando scorciatoie per rendersi la vita più facile. Mi sembra di percepire l’architettura, la costruzione, la scaletta del romanzo, e questo mi impedisce di goderne. Il patto di finzione che stabilisco con l’autore inizia a vacillare, perdo fiducia e comincio a ad avere un senso di fastidio. In “Doctor Sleep” (che è stato spacciato come il seguito di “Shining”, ma che lo è soltanto perché il bimbo di quel testo è diventato adulto ed è il protagonista di questo) sembra che King faccia di tutto per rendersi poco credibile. Sono talmente tante le situazioni, gli strani poteri dei personaggi, le cosiddette trovate, e gli spunti narrativi in cui la sospensione dell’incredulità del lettore viene duramente messa alla prova, che per terminare il romanzo senza restarne sopraffatti e irritati occorre grande pazienza e molto affetto verso l’autore. Non voglio fare l’elenco di tutti gli ingredienti paranormali (chiamiamoli così, per semplicità) che affollano questo romanzo, penso servirebbero molte righe soltanto per completarlo e non servirebbe a comprendere fino in fondo la mancanza di “pudore narrativo” che ha fatto costruire un plot del genere. Però sono troppi, decisamente troppi. Non è l’uso del paranormale come motore narrativo a indispormi, ad esempio ho molto goduto de “La zona morta” e anche di “Christine”, quello che mi lascia perplesso è l’affastellarsi di una serie pressocchè infinita di “trovate” sull’argomento, come se la realtà fosse un fastidio da prendere controvoglia in considerazione e un romanzo fosse la palestra per lasciar correre a ruota libera la fantasia senza preoccuparsi di dare al lettore qualcosa di solido a cui aggrapparsi. Se si inserisce un elemento insolito o inspiegabile in una storia con un robusto radicamento nella realtà e se ne raccontano le conseguenze, le distorsioni e le rifrazioni che ne conseguono, il risultato può essere interessante, se gli elementi della narrazione sono una sorta di campionario dell’impossibile, il risultato può sfiorare il ridicolo e a volte soffocarci dentro.
Ma è pur vero che, a dispetto di quanto appena scritto, King tiene in mano la storia come ha sempre mostrato di saper fare. La tiene in pugno e la lascia gocciolare sul lettore quel tanto che basta per non dissetarlo e per non farlo morire di sete, costringendolo a proseguire nella lettura anche se, a volte, infastidito. Come si è soliti dire in questi casi, la classe non è acqua.
Per pudore non commento la postfazione di King in cui ci racconta come ha concepito l’idea di dare un seguito a “Shining”, rubate con gli occhi quelle righe in libreria e capirete il motivo. Menzione d’onore, invece, per l’epigrafe in cui si parla di Warren Zevon: ha l’aria di essere sincera, e per tutti i fan del grande songwriter è una ragione in più per ricordarlo con affetto.
Don Winslow. L’inverno di Frankie Machine.Einaudi, 2008. 320 pag. 16 euro.
e
Michael Connelly. Il quinto testimone Piemme, 2014. 485 pag. 19.90 euro.
Mi fa molto piacere scrivere di questi due testi, che casualmente ho letto uno di seguito all’altro, perché sono un esempio illuminante di come si possano scrivere romanzi di chiara impostazione thriller (anche se con i dovuti e inevitabili distinguo) in maniera quasi diametralmente opposta.
Per essere più precisi si potrebbe descrivere “Il quinto testimone” come un legal thriller mentre ”L’inverno di Frankie Machine” è una sorta di gangster story, ma in entrambi i casi siamo alle prese con un tipo di romanzo in cui la trama e il ritmo sono ritenuti elementi fondamentali, anzi, decisivi, per ottenere un buon risultato. Quello che colpisce, e in qualche modo rende omaggio alla scrittura in senso generale, celebrandone la plasticità e l’aspetto proteiforme, è la maniera in cui questi due autori, sono arrivati ad un risultato più che soddisfacente percorrendo strade molto diverse, quasi diametralmente opposte.
Winslow ha scritto un romanzo che, nello spunto narrativo di partenza, somiglia moltissimo ad “History of violence”, il film di David Cronemberg del 2005, ma ciò che affascina nella lettura non è lo spunto di partenza, peraltro banale e, appunto, già altre volte esplorato, ma la capacità di affrontarlo con un nuovo sguardo, con un andamento sincopato, denso di flashback che si intrecciano con l’azione, interrompendola e sovvertendo i canoni dei romanzi di questo genere, fregandosene completamente di tutti gli stilemi, i dettami e i manualetti su “come scrivere un giallo”. Quante volte, nella promozione o sulle fascette di un giallo, abbiamo letto: “Ritmo incalzante!”, “Senza un attimo di respiro!” “Non riuscirete a smettere di leggere fino all’ultima pagina!” e via continuando con questi clichè? Non ho tenuto il conto delle pagine, ma credo che il numero di esse occupate dai flashback sia maggiore di quelle dedicate al progredire della vicenda, e questo la dice molto lunga su come Winslow abbia voluto uscire dal consueto proponendo un testo dalla struttura diversa. Se Durrenmatt, negli anni cinquanta e sessanta, dette una robusta spallata ai canoni del giallo “classico” agendo sulle trame e soprattutto sui finali dei suo romanzi, l’autore de “L’inverno di Frankie Machine” credo lo abbia fatto dal punto di vista della struttura narrativa. Forse, in questo enorme proliferare di gialli, noir, thriller e sottogeneri comunque legati alla gestione della tensione del lettore, in pochi se ne accorgeranno (io stesso, colpevolmente, arrivo con cinque o sei anni di ritardo perché non si può leggere tutto) ma mi fa piacere segnalare questa piccola rivoluzione.
Pur appartenendo alla stessa grande famiglia, il romanzo di Connelly è di tutt’altra natura. La sua scrittura ricorda il morso di un pittbull: quando stringe le mandibole attorno ad una storia non la molla più e, mentre stringe, ad intervalli irregolari da delle scrollate che fanno traballare tutto l’impianto precedentemente strutturato. Che Connelly sia un maestro del genere non lo scopro di certo io, ma quel che mi sorprende ogni volta è come riesca a mantenere il livello dei suoi romanzi sempre molto alto. Di tutta la sua produzione, e ormai sono decine di romanzi, ricordo soltanto un mezzo passo falso con un romanzo intitolato “Vuoto di luna”, tutto il resto è su altissimi livelli di scrittura. In questo caso, come quasi in tutti suoi romanzi, Connelly fa del ritmo e delle competenze la sua arma vincente. Non lascia al lettore neppure un istante per prendere fiato e lo bombarda da più lati usando le sue munizioni migliori: la profonda conoscenza su come viene svolta un’indagine, la capacità di districarsi nelle strategie processuali e illustrarne gli effetti sui diversi protagonisti, la precisa consapevolezza di ciò che è o non è eticamente accettabile nel rapporto tra difensore, imputato e procuratore. Naturalmente a tutto questo non è estranea la sua lunga esperienza come cronista di nera, ma è ovvio che soltanto aver seguito indagini e processi per lavoro non può essere sufficiente a scrivere romanzi così tirati e densi. Infatti, se durante tutto il testo, che è sostanzialmente la narrazione di un processo, a volte si avverte una sorta di pignoleria nel riportare tutti i passaggi e le deposizioni, il finale riscatta ampiamente questa impressione negativa sfiorando la perfezione nello sciogliere tutti i nodi con una intuizione che accarezza il poetico.
Emanuela Monti. I segnati Giraldi Editore, 2013. 134 pag. 11 euro
Leggendo questo romanzo breve di Emanuela Monti, viene da chiedersi perché alcuni autori siano pubblicati in pompa magna da grandi case editrici ed altri siano invece costretti a pubblicare semiclandestinamente con case editrici incapaci di promuoverli e, molto spesso, anche di distribuire i loro volumi in modo almeno dignitoso. Le risposte potrebbero essere molte e anche molto articolate, meglio lasciar perdere.
Questo prologo, come probabilmente si è già capito, era per dire: cos’ha Monti, ad esempio, meno di Recami, pubblicato da Sellerio in grande stile? Niente, anzi. Sono certo che se ad un fan di Recami deste da leggere questo testo della Monti spacciandoglielo per uno del suo autore preferito, non esiterebbe a dire che è il suo romanzo migliore. E, per continuare sul tema: cos’ha Monti meno di Andrea Vitali, autore di punta della Mondadori? Stessa identica risposta. Nulla, anzi.
Ho fatto questa specie di pubblicità comparativa anche per arrivare a individuare il genere di questo breve romanzo. L’ambito in cui si muove Monti è, tanto per inventare un altro sottogenere, quello del “giallo domestico”, nel senso che la voce narrante è quella di un personaggio vicino alle vittime di un omicidio e, pur non essendo un investigatore, cerca di capire.
Il romanzo è scritto senza presunzioni di alta letteratura, ha nella scorrevolezza il suo pregio più evidente ed capace di regalare un finale a sorpresa. Forse poteva essere strutturato diversamente e al suo interno alcune aspetti e argomenti potevano avere peso e approfondimenti diversi ma, com’è ovvio, una delle scelte fondamentali dell’autore è quella di decidere dove indirizzare un testo e dove condurre il lettore. In estrema sintesi, “I Segnati” è un romanzo breve di gradevole lettura, non privo di originale personalità, scritto da un’autrice che sa usare l’italiano conoscendone tutte le sfumature. Se vi pare poco…
John Niven. Maschio Bianco Etero. Einaudi 2014. 376 pag. 18.50 euro.
Ancora una volta, dopo “The second coming”, Niven mostra tutto il suo coraggio e si misura con un tema che somiglia molto ad un luogo comune: lo scrittore alcolista, donnaiolo, egocentrico, baciato dal successo, con le mani bucate ecc. ecc.
Sembra quasi che abbia voluto divertirsi a raccogliere i clichè sull’argomento, farne un mazzetto, gettarli ne fuoco e ridisegnarne la mappa per i prossimi che vorranno cimentarsi sull’argomento. La parte migliore di questo romanzo è senz’altro l’ampiezza del registro che Niven scrive sullo spartito della sua storia. Passa da volgarità persino difficili da riscrivere a citazioni di Shakespeare, Yeats, Joyce e Keats, ma la cosa veramente sorprendente di questo andamento ondivago, sopra e sotto le righe dello strumento-personaggio, è perfettamente credibile, a volte necessario. In pochissime parole: un personaggio così era da tempo che non vedeva la luce. E’ esclusiva dei grandi permettersi il lusso di affrontare tematiche logore e essere capaci di rivitalizzarle. Tutti gli altri, i meno dotati, incapperebbero in una memorabile figura barbina. Fa bene al cuore di chi ama leggere constatare che ancora non tutto è perduto, che la creatività non è stata completamente sconfitta da agenti, editor e editori codardi (“sempre pronti a dar buoni consigli non potendo dare cattivo esempio”, parafrasando il cantautore) e che uno scrittore possa ancora mettere nero su bianco un personaggio con una così estesa varietà di toni, ventaglio di registri, un personaggio sorprendentemente capace di esplodere in mille pezzi e poi ricomporsi senza che questo appaia forzato. Davanti a questa scrittura a nessuno frega più nulla della trama e dei personaggi secondari: ci si gode il centro della narrazione e amen, tutto il resto passa in secondo piano. In questo romanzo si incontrano, quasi per caso, tra le pieghe del plot, dei brani di altissima letteratura, Ce n’è uno in particolare, poco dopo pagina sessanta, sul tradimento dell’amore, sulle offese all’amore, che non riuscirò a dimenticare neppure volendo
Niven è uno scrittore bello da leggere quanto può esser bello vedere un cavallo selvaggio correre libero. Certo, a molti piace vedere i cavalli correre negli ippodromi, con il numerino sul garrese e un fantino sopra o dietro, sul sulky, ma sono certo che se qualcuno provasse a salire in groppa a Niven per cercare di guidarlo tirando le briglie farebbe una pessima figura e si ritroverebbe con il culo per terra senza neanche ricordarsi di aver provato a salire. E poi, subito dopo, esattamente come il suo grandioso Kennedy Marr, si sentirebbe la voce di Niven suggerire: “Adesso i tuoi consigli oliali bene e ficcateli dove hai appena battuto”.
Luca Rinarelli. Inverno rosso. Eris Edizioni, 2014. 389 pag. 14 euro.
Quando già nella copertina, in alto al centro, si decide di scrivere “Romanzo Noir”, è ben chiaro che si vuole avvisare il lettore di ciò che sta per leggere. Quando anche il testo sembra volerlo ribadire ad ogni frase, il risultato può essere stucchevole. In tutte le quasi quattrocento pagine di questo romanzo sono riuscito a contare non più di tre frasi che fossero più lunghe di due righe. So bene che il noir deve avere una cadenza, che dev’essere secco e che non deve somigliare a Proust, James Ellroy in questo ha esagerato ben più di Rinarelli, ma leggendo si ha la sensazione che lo si voglia sottolineare con una eccessiva foga. Questo non significa che il romanzo sia sgradevole, tutt’altro, ma appare chiaro che la voglia di “schierarsi” sotto lo striscione del noir abbia un pochino preso la mano al suo autore.
Anche un protagonista di questo genere di romanzo può avere pensieri più articolati, anche un autore di noir può concedersi una frase più tornita e meno secca, non credo sarebbe un peccato di “leso stile”. Se mi si passa il paragone calcistico (qualcuno mi odierà, lo so), è come vedere un grandissimo giocatore fare sempre e solo esercizi con il muro: destro, sinistro, destro, sinistro, destro, sinistro … Da come tocca la palla si capisce che è bravo, però continua a fare sempre le cose più banali, senza mai tentare qualcosa che sorprenda.
Non è la vicenda narrata a diventare sottilmente noiosa, è il modo di scriverla.
La storia in sé, per quanto sia un pelino troppo fantasiosa nella sua parte finale, tiene e lo fa con robustezza. I personaggi sono svelati con la giusta lentezza, i rapporti tra loro si delineano con nitidezza e l’azione sale gradatamente fino al climax finale convincente e anche sottilmente liberatorio, su quest’aspetto niente da dire. Non so se Rinarelli voglia continuare a scrivere sempre e soltanto noir, fossi in lui cercherei di aprire di più le possibilità espressive della sua scrittura, cercando di scavalcare gli steccati immaginari che sorgono ai confini dei generi letterari. Ma si sa, i consigli non richiesti sono una cosa che raramente fa piacere.
John E. Williams. Nulla, solo la notte. Fazi Editore, 2014. 144 pag. 13.50 euro.
E’ senz’altro un mio limite, una mia mancanza, ma io ‘sto benedetto Williams non riesco proprio ad apprezzarlo. Vista l’enorme schiera di lettori, ed anche di critici, che lo adora e lo celebra come uno dei maestri della narrativa americana della seconda metà del secolo scorso, mi sento un po’ a disagio, però è così, non posso farci niente. Da “Stoner” a “Butcher crossing” per arrivare a quest’ultimo, pubblicato un paio di mesi fa, non sono riuscito a capire i motivi di tanto seguito e tanta ammirazione. Non riesco a cogliere il fascino di cui le sue pagine, secondo molti, sembrano essere colme e non ne capisco completamente neppure la scrittura, non ne colgo la direzione. Il suo modo di raccontare mi sembra sterilizzato in autoclave, privo della capacità di trasferire emozioni o suggestioni, in completa assenza di tensione narrativa.
I suoi primi due romanzi comparsi in Italia (questo, pur essendo il suo esordio, si è corsi a pubblicarlo soltanto dopo il successo delle precedente uscite) avevano almeno uno scheletro di storia da cui farsi sorreggere, in “Nulla, solo la notte” non si ha neppure il beneficio di quella. Questo breve romanzo è una sorta di diario alterato di una giornata caratterizzata da tre incontri, una sbronza colossale e bel pestaggio che, sia detto del tutto per inciso, ho fortemente apprezzato perché il protagonista mi aveva veramente rotto le palle. So che è un approccio critico neppure lontanamente scientifico e/o accademico ma voglio concedermelo. E tutto questo (incontri, sbronza e pestaggio) è vissuto in condizioni mentali di scarsissima lucidità, in compagnia di fantasmi mai definiti, di un passato fumoso e di una madre defunta in circostanze non chiarite. Come se non bastasse, tutto questo è narrato attraverso il filtro di una stanchezza profonda del protagonista che, inevitabilmente, tracima nelle pagine e le rende di difficilissima digestione. Che altro dire? E’ piuttosto facile immaginare che gli ammiratori della prosa la prosa di Williams, quelli che hanno amato i due romanzi sopracitati, possano trovare piacevole leggere anche questo, io non ci sono riuscito.
Recensioni di Daniele Borghi