Lavorare con lentezza – Enzo del Re il corpofonista
Timisoara Pinto – Squi(libri) 2014, pagg. 304 con 2 CD eur 25
La recente scomparsa di Antonio Infantino mi ha fatto rileggere questo bellissimo libro della giornalista Timisoara Pinto, su Enzo Del Re, figlio di un poeta popolare rimatore a braccio in ottava rima dalla corrosiva vena satirica frenato da minacce dal signorotto del luogo. Enzo è stato un artista fuori dal comune, non solo perché da percussionista preferì da subito la sedia ai bongos, ma anche per una capacità di rendere ritmico il suo stesso corpo, fino a creare un’armonia fisica stramba e coinvolgente. Assorbe l’abitudine contadina di segnare il ritmo del lavoro col canto, che diventa poi di lotta. Fatto tesoro della condivisione collettiva dei beats durante l’alluvione del 66 a Firenze, conosce appunto l’altro irregolare, Antonio Infantino, che lo inserisce come percussione umana nel suo album e poi finisce con il far coppia con lui fino al “Ci ragiono e canto 2” di Dario Fo, evoluzione in teatro politico del famoso “Bella ciao”. Sono anni di creatività esplosiva, provocazioni e dissacrazioni, esuberanze e scontri. Ma Enzo resta sempre fuori da qualsiasi schematizzazione, gruppo, progetto. Appare e scompare, suona pancia e valigie, modula con una voce magnifica che conquista. Si muove senza auto, viaggia senza biglietto, discute, resta coerente al suo credo fino all’eccesso, si fa pagare col compenso medio giornaliero di un metalmeccanico, si autoproduce musicassette. Il libro di Timisoara Pinto è opera indispensabile, preziosa, appassionata, è la descrizione di un momento straordinario e una dichiarazione d’amore per questo folletto dal cappuccio rosso che ha attraversato senza cedimenti i decenni, un libro che desta meraviglia e commuove, corredato da due cd, una preziosa raccolta di incisioni del nostro e la celebrazione, a pochi mesi dalla scomparsa, nella sua Mola, con il compagno artistico, Vinicio Capossela e i Tetes de Bois che lo avevano riportato alla ribalta appena in tempo, Alessio Lega, i Faraualla.
recensione di Alberto Marchetti