In The Court of The Crimson King: Alessandro Staiti, Arcana Editore, 2016, 190 pag. Euro 16.50
L’ascolto di In the Court of the Crimson King, nel 69, fu per la mia generazione una folgorazione. Abituati alla poetica dei Beatles, alla forza dirompente del rock blues dei Rolling Stones, alla narrazione lirica di Bob Dylan, i King Crimson rappresentarono un nuovo inizio, l’approdo su di un territorio affascinante ed inesplorato, che già allora lo intuimmo, avrebbe segnato il futuro della musica rock, i nostri gusti, le nostre opzioni culturali. Già la splendida copertina cremisi con il famoso faccione era fuori dal comune, e vero esempio di Arte Totale, ove musica, pittura e poesia si intrecciavano mirabilmente, lasciava presagire percorsi artistici verso territori inesplorati (detta copertina con il faccione dell’uomo schizoide fu opera dello sfortunato pittore Barry Godber, morto d’infarto pochi mesi dopo l’uscita dell’album).
Il 13 novembre 1973, nell’epocale, stupendo concerto romano al Palaeur di Roma, celebravamo il definitivo trionfo e l’acquisizione culturale del “prog” in Italia, dove già Genesis e Van Der Graaf Generator andavano per la maggiore, incontrando pienamente le sensazioni e lo spirito dell’epoca, nel nostro paese più che in altri.
A questo proposito il bel volume di Alessandro Staiti, saggista e scrittore, già storica penna di “Ciao 2001”, “New Age Music & New Sounds”, e “Chitarre”, ci riporta indietro nel tempo, ci fa rivivere quelle sensazioni, e sottolinea con forza e chiarezza i profili di quella che fu una vera rivoluzione della musica rock. Non si guardava più al blues rock americano, come buona parte delle band inglesi allora facevano, ed alla psichedelia, pur così vivida e creativa, ma alla musica colta europea, al jazz, al folk inglese, rielaborando suggestioni medioevali di arcano splendore.
Si aprivano le porte della percezione a suoni inediti, suggestivi, elaborati, profondi, che avrebbero lasciato un segno profondo nella storia della musica contemporanea, realizzando un inedito sincretismo di culture musicali molto diverse tra di loro.
Già autore, nel lontano 1982 di un seminale, prezioso libretto “Robert Fripp & King Crimson”, prima monografia su Rober Fripp, che leggemmo con avidità, Staiti ritorna sull’argomento e lo approfondisce, tracciando la storia di questa multiforme e geniale band, con una particolare attenzione al primo, epocale album, che dà il nome al volume, e raccontando, attraverso di esso, e con forte partecipazione emotiva, la sua personale storia del complesso, altalenante rapporto di amicizia con Robert Fripp, che nel corso degli anni ha subito alti e bassi, a seguito di avvenimenti e circostanze molto diverse.
L’Autore racconta, con rigore giornalistico e passione l’incontro con questa straordinaria band, avvenuto con l’ascolto dello splendido album, che dà il titolo al libro. Egli ripercorre la nascita dell’ensemble, con il primo nucleo formato da Robert Fripp ed i fratelli Giles, sin dal primo misconosciuto, incompiuto, album “The Cheerful Insanity of Giles, Giles & Fripp”, e con rigore filologico, dà conto delle progressive partecipazioni al gruppo, dove entrò il polistrumentista Ian Mac Donald, e subito dopo ci fu la breve apparizione della sua fidanzata Judy Dyble, una delle voci dei Fairport Convention; viene messa in rilievo la progressiva, sempre maggiore influenza del paroliere Pete Sinfield, che escogitò proprio il nome della band, ed infine l’ingresso di Greg Lake, bassista al posto di Pete Giles, che diventerà la (splendida) voce dei King Crimson.
Ma l’evento che fa esplodere la fama di questa band straordinaria è il famoso concerto dei Rolling Stones ad Hyde Park, il 5 luglio 1969, cui essi partecipano, insieme ad altre band, come spalla; un concerto programmato ma che, per l’improvvisa morte di Brian Jones, diventa un epitaffio al musicista scomparso. La band azzecca pienamente un repertorio, certamente studiato per l’occasione: Partono con 21st Century Schizoid Man, poi In the Court of Crimson King, poi Epitaph, sancendo il loro primo trionfo, con una performance stringata, ma potente. L’Autore sottolinea come questa, davanti a seicentomila persone, sia stata la prima uscita all’aperto (prima si erano esibiti in piccoli locali e cantine). La risposta del pubblico e delle riviste specializzate è sensazionale: è nata una grandissima band, caratterizzata da musicisti eccezionali, dall’uso del mellotron, utilizzato in modalità assolutamente innovative per l’epoca (i Moody Blues lo utilizzavano, ma come elemento meramente riempitivo), dalla chitarra geniale, tagliente e selvaggia di Fripp, dalla voce potente e profonda di Greg Lake, dall’indimenticabile stile percussivo di Giles, fortemente jazzistico.
Alessandro Staiti rende appassionante il volume, in quanto ha cura di inserire la vicenda di questa band straordinaria, in un preciso contesto storico culturale, nel quadro degli avvenimenti del 68, durante la grande esplosione di creatività e di espressione artistica che lo caratterizzò, manifestandosi nelle Arti e nel costume, ove creatività e protesta sociale si coniugavano, ed il rock diventava colonna portante di una generazione, interpretando perfettamente lo spirito del tempo.
I Crimson vengono dalla provincia, da Bournemouth, ed il trasferimento nella “Swinging London” sessantottina apre loro nuovi orizzonti. La loro formazione, però, è tale da consentirgli di osservare in maniera un po’ distaccata i grandi sconvolgimenti dell’epoca, e mentre Sinfield, il geniale paroliere, sarà sempre influenzato dal visionario potere evocativo della parola, frutto di una notevole cultura letteraria, ed in particolare dalla poetica della “beat generation”, Fripp diventa il vero intellettuale del gruppo, intriso di filosofie esoteriche ed orientali, cultore anch’egli delle poetiche della beat generation, dei grandi ideali di pace, amore e libertà. Ma tutto ciò viene interpretato e perseguito in un originale percorso culturale assolutamente inedito. I King Crimson vogliono rimanere liberi anche di esprimere compiutamente il loro potere creativo, sia pure nell’ambito della industria discografica.
L’Autore descrive in modo eccellente un brano dopo l’altro, ne studia la genesi, riporta aneddoti, ne segue l’evoluzione, ne descrive sensazioni, con un prezioso lavoro esegetico; mirabile la descrizione di “21st Century Schizoid Man”, inno contro-culturale sulla guerra, in particolare quella del Vietnam, che impazzava allora, e che descrive molto bene la condizione dell’uomo contemporaneo, alternando melodie e dissonanze, restando a tutt’oggi un capolavoro della musica sperimentale contemporanea.
La stupenda Epitaph, anch’esso inno contro-culturale è analizzata con molta cura: lo scrittore mette bene in evidenza come il mellotron arrivi a fondersi mirabilmente con la voce di Lake, e Sinfield, dal canto suo, nelle parole, raggiunga le migliori vette della letteratura inglese. Pervaso da un lirismo struggente, questo brano sposa in maniera perfetta la cultura romantica con il linguaggio del rock, esprimendo una splendida poesia pessimista e dolente, di profonda suggestione ancora oggi. Uno dei brani più belli che una band rock abbia mai concepito.
Ma è anche “I Talk to the Wind”, brano di matrice prettamente folk, dedicato alla solitudine ed alla alienazione, ad essere stravolto e reso più moderno e suggestivo dal tappeto sonoro creato dal flauto di Mc Donald, dalla voce di Lake, dal soffice chitarrismo di Fripp, contrappuntato da piano e clarinetto, contribuendo a creare una miscela inedita di suoni suggestivi e pregnanti. Analisi abbastanza similare potrà essere effettuata anche per la similare, delicata “Moonchild”, dai testi delicati, e dalla eterea melodia.
“The Court of Crimson King” è il brano che, insieme ad “Epitaph”, valorizza pienamente il mellotron, che insieme agli arpeggi di Fripp, ed al cantato sublime di Lake, che si avvale delle splendide parole di Sinfield, cui si aggiunge il flauto medioevale di Mc Donald, determina, in una complessa costruzione armonica, nuovi percorsi per la musica moderna europea.
Ed è proprio sulla ridefinizione di una moderna Nuova Musica Europea che l’Autore pone la sua attenzione critica, approfondendo e valorizzando i percorsi della geniale band inglese.
Il volume è puntuale e preciso anche nel dar conto delle riedizioni e ristampe di questo grande capolavoro: vengono accuratamente descritte “The Definitive Edition” del 1989, la “Original Master Edition” del 2004, ed infine l’edizione del 2009, la più completa ristampa, “40th Anniversary Series”, nella quale al remastering, particolarmente accurato, collabora anche Steven Wilson.
Una parte del libro ci rende, altresì, edotti anche delle uscite più recenti della band in versione sestetto, con tre batterie in prima linea, con interessanti e personalissime valutazioni critiche.
Insomma, in via definitiva, una lettura appassionante, approfondita filologicamente, a volte forse un poco ripetitiva, ma imprescindibile per chiunque abbia incontrato sulla sua strada la folgorante poetica di Re Cremisi, o per chi voglia farne ora la conoscenza, attraverso una pietra miliare del rock, che resterà per sempre un grande capolavoro della creazione musicale di ogni tempo.
recensione di Dark Rider