Il pane di Abele, di Salvatore Niffoi Adelphi, pp. 165, Euro 18,00
L’ennesimo quadro a tinte forti quello narrato dal cantastorie della letteratura barbaricina Salvatore Niffoi con un racconto che cammina in equilibrio sul baratro dell’amicizia e della lealtà, dell’amore e del tradimento.
È la storia di due ragazzini, Zosimo e Nemesio, il primo sardo figlio di pastori, d’animo semplice e nobile, il secondo appartenente ad una famiglia di burocrati giunta dal continente, unico maschio tra sorelle femmine, dall’intelligenza assai sviluppata. Tra i due, sebbene così diversi, nasce subito un’amicizia che si cementa negli otto anni trascorsi insieme all’ombra del paesino di Capriles e che li porta a crescere diventando “vrades pro sempere” fratelli per sempre. Tra tutte le esperienze condivise vi è anche quella inconsapevole dell’amore per la bella Columba, la quale ama il primo alla luce del sole mentre segretamente si concede al secondo. Nonostante le vite dei due amici prenderanno in seguito percorsi diametralmente opposti, portando Zosimo a sposare l’amata Columba e Nemesio a far carriera politica nel continente, a distanza di vent’anni il patto violato sarà la chiave di volta che porterà la storia al tragico e inevitabile epilogo.
Nello stile tipico che caratterizza l’intera opera di Niffoi, questa strana commistione tra italiano e “limba” (lingua) sarda, ritroviamo uno dopo l’altro tutti i tasselli che compongono ognuno dei suoi scritti. L’evocazione di una civiltà ancestrale e arcaica sia nell’ambientazione che nella forza narrativa, mediante la quale riusciamo a cogliere in maniera distinta addirittura gli odori, i colori e i sapori. Le situazioni crude e viscerali, dove i sentimenti traditi non trovano pace se non con la soluzione estrema, dove la tragedia si consuma a causa di quei legami suggellati col sangue e che, una volta spezzati, solo col sangue possono essere lavati. Ed è un sollievo che coglie anche il lettore nel momento stesso in cui la vendetta si attua, in quanto la morte appare sempre la sola e unica che può sciogliere il vincolo e dare pace ai tormenti subiti.
Vincitore del Premio Campiello nel 2006 con “La vedova scalza” Salvatore Niffoi continua ad incantarci con la narrazione di una Sardegna d’altri tempi, epica e selvaggia, intransigente e incline al perdono dei sentimenti traditi, fiera e fedele alla parola data. I nomi e i luoghi sono di fantasia, ma ci riportano inevitabilmente a situazioni scolpite nel nostro passato prossimo, dove magari gli isolani di oggi non si riconoscono più, ma che danno comunque all’opera un’impronta a metà tra romanzo e realismo, dove l’identità di un popolo viene orgogliosamente esibita nel bene e nel male.
Non riesco ancora a comprendere quanto sia apprezzato Niffoi nell’isola per questo suo voler sottolineare certi stereotipi della cultura sarda, con i quali ancora oggi nel continente si tende ad etichettare i suoi abitanti così come “pizza, spaghetti e mandolino” accomunano tutti gli italiani nel resto del mondo; certo è che la lettura dei suoi libri non ti lascia indifferente: o si ama o si odia.
Io lo amo, e voi?
Recensione by Claudia