Fabio Rossi,Quando il rock divenne musica colta: storia del prog (Chinaski edizioni, pagg. 2015, 14 euro )
Il risveglio dell’interesse relativo alla musica progressive non è davvero un evento da prima pagina. Da una decade abbondante, i seguaci storici ed i neofiti del genere possono tranquillamente ammirare dal vivo le inossidabili performance degli Yes o della PFM, per fare qualche esempio, oppure ascoltare nuove produzioni come nel caso di Orme o Van Der Graaf Generator, il tutto accomunato dalla gloriosa dicitura “progressive” come marchio di fabbrica di un tempo e di un’epoca forse irripetibile. Chiaramente, ai nastri di partenza è impensabile prescindere da King Crimson e Genesis, Emerson Lake & Palmer e Jethro Tull ed ancora dai Gentle Giant, fino agli alfieri nostrani impersonati da Orme e Banco del Mutuo Soccorso, dagli Area e dalla PFM, oltre ad un nugolo di gruppi minori ma strettamente inerenti la sfera progressiva. La pubblicazione di Fabio Rossi Storia del Prog raggruppa tutto quel mondo che per un decennio scarso ha cambiato il modo di intendere la musica, con accenni nostalgici per il periodo culturale d’oro da esso attraversato ma gettando uno sguardo anche su quelle realtà che ancora oggi decidono di misurarsi con il prog-rock, nonostante le sonorità siano irrimediabilmente diverse da quelle di quarant’anni fa. Il sottotesto del libro Quando il rock divenne musica colta la dice lunga sull’importanza rivestita da questo genere musicale nella storia della musica del novecento. Fabio Rossi ha concesso a Slowcult un’intervista nel quale ci racconta la sua passione per il prog, ovvero la stessa che ha disseminato tra le pagine del libro in questione.
SLOWCULT: Allora Fabio, nel libro poni l’accento sul fatto che il prog inizialmente venne emarginato dal pubblico, forse troppo abituato ad un rock imperante. Credi sia stata questa la motivazione che ha permesso al genere di venire così riconsiderato in futuro fino ad assurgere a status di cult?
FABIO ROSSI: Il taglio complesso della musica progressive può rendere il prodotto inizialmente poco fruibile alla grande massa. Da svariato tempo, però, il movimento sta tornando alla ribalta, uscendo a poco a poco dalla sfera underground in cui era stato relegato dalla fine degli anni settanta in poi. Ci terrei a rimarcare il fatto che alcuni gruppi famosi dell’epoca d’oro (1969/1975) faticarono ad imporsi in Gran Bretagna, come nel caso dei Genesis e dei Van Der Graaf Generator, trovando il successo proprio qui da noi: i giovani italiani avevano gusti davvero progressivi ed erano all’avanguardia!
S.: Nei “prodromi” citi i grandi del beat e del rock come apripista per il genere prog. Nella musica attuale vedi qualche artista in grado di lasciare un segno tangibile in favore della musica che verrà?
F.R.: Sarò lapidario: purtroppo non vedo nulla all’orizzonte e non perché non vi siano talenti artistici in circolazione, ma per l’oggettiva difficoltà nel proporre qualcosa di veramente innovativo.
S.: Inizialmente, il fermento politico del periodo concorse allo sviluppo della musica prog. Avvento del punk a parte, quali furono secondo te le concause che contribuirono alla decadenza del movimento?
F.R.: La politicizzazione caratterizzò nel bene e nel male il prog italiano; all’estero questo fenomeno non sì è verificato ed è per tale motivo che le cause della decadenza del genere sono diverse. Fuori dai confini nazionali la crisi creativa dei pachidermi del prog determinò la necessità di addivenire ad una semplificazione della musica che agevolò l’avvento del punk e della new wave.; in Italia la crescita esponenziale della violenza politica e dello stragismo portò ad un disorientamento tra i giovani che preferirono approcciare a generi più disimpegnati, quali la disco music, come a voler esorcizzare la paura, oppure preferirono approdare al cantautorato d’autore. Ovviamente il discorso sulle motivazioni del declino è molto complesso, basti pensare a titolo esemplificativo, che il cantante Jimmy Spitaleri attribuisce lo scioglimento dei Metamorfosi al servizio di leva che smembrò la band, alcuni critici considerano un nocumento l’avvento della figura del DJ, altri ancora mettono sul banco degli imputati la politica delle case discografiche che puntavano maggiormente all’easy listening o, per meglio dire, musica usa e getta e via discorrendo.
S.: Ti sei soffermato lungamente sui testi dei gruppi inglesi. Credi che le difficoltà legate alla lingua abbiano penalizzato oltremodo le band nostrane nel tentativo di esportare il prog oltreconfine?
F.R.: La lingua che maggiormente si attanaglia al rock è e sarà sempre l’inglese. Gli altri idiomi hanno oggettive difficoltà ad imporsi e, d’altra parte, il rock è nato in Gran Bretagna.
S.: Per chiudere, tu sei un fervente appassionato di progressive metal. Quali sono, secondo la tua visione, le band di maggior impatto ed al tempo stesso di maggior reminiscenza stile anni ’70?
F.R.: Adoro in particolar modo i Dream Theater, i Queensryche ed i Tool e nel loro sound si percepisce chiaramente l’influenza delle sonorità di quegli anni inarrivabili, non potrebbe essere altrimenti: è lì che vanno ricercate le radici della musica colta.
Intervista di Fabrizio ‘82