Alla fine di un giorno noioso, di Massimo Carlotto, Edizioni E/O, 2011, pp. 177, €17.00
Qualche anno fa un critico molto importante, sulle pagine di un altrettanto importante quotidiano, scrisse che Giorgio Faletti era il miglior scrittore italiano. Al momento della stesura dell’articolo non gli venne fatta la prova alcolemica e quindi, essendo io di animo molto nobile, propendo per l’ipotesi che in quel momento egli non fosse del tutto sobrio. Questo breve preambolo per prepararmi alla mia dichiarazione. Più settoriale, meno roboante, meno influente e sicuramente meno letta e ancor meno pagata: Massimo Carlotto è il miglior scrittore italiano di noir. E giuro che sono sobrio, quindi non potrò rimangiarmi quello che sto scrivendo. Con la sola eccezione di un mezzo passo falso di qualche anno fa (“Nord Est”, Ed. E/O, 2005, scritto a quattro a quattro mani con Marco Videtta) Massimo Carlotto ha edificato un’opera che lo ha reso unico nel panorama degli scrittori italiani. Sin dalla sua prima uscita (“Il fuggiasco”, Ed. E/O, 1995), un romanzo quasi totalmente autobiografico sul periodo della sua lunga latitanza, Carlotto, pur se ovviamente coinvolto emotivamente, ha saputo metter in luce una scrittura asciutta e levigata come un sasso di fiume. Le sue pubblicazioni sono numerose e non mi pare il caso di elencarle, chiunque ne abbia voglia può andare a cercarne tracce su Wikipedia o sul sito dello stesso Carlotto, ma ciò che interessa di esse è la particolare qualità della scrittura. In ogni pagina che si possa leggere non c’è mai alcuna traccia di sentimentalismo, neppure in maniera embrionale. La sua scrittura è così asciutta che può ricordare sia Raymond Carver, naturalmente in territori diversi, che quella, per rimanere nell’ambito “noir”, di James Ellroy.
Il protagonista di “Alla fine di un giorno noioso” è lo stesso Giorgio Pellegrini che avevamo lasciato undici anni fa davanti alla bara della sua fidanzata, da lui stesso uccisa con un farmaco a cui era allergica. Lo avevamo visto anche al cinema con il viso di Alessio Boni (una delle sue poche interpretazioni convincenti) in un solido film di qualche anno fa “Arrivederci Amore ciao”, e ora lo rincontriamo appena imbolsito, meno pronto a fiutare le trappole e ad evitarle, ma ben presto di nuovo pronto a scendere in pista e a premere forte sul gas. Questa pista è l’Italia di oggi, in cui malaffare, malapolitica, criminalità organizzata e cani sciolti si contendono le spoglie del nostro paese, senza pietà e senza la minima intenzione di escludere qualche mezzo. Ciò che sorprende è, anche qui, la sobrietà del racconto. In pochi tratti, chirurgicamente precisi e intensamente efficaci, si delineano situazioni, intrecci e campi d’azione per cui, uno scrittore “normale”, avrebbe bisogno di duecento pagine, lasciando sulla carta non il disegno del tutto ma la pista cifrata con cui ricostruirlo senza trascurarne neppure un particolare. Sì, Carlotto scrive così, non indugia in nulla. Rilascia quel che è necessario a capire, a costruirsi la realtà che lui stesso ha immaginato ma senza essere mai ridondante o didascalico, sia per ciò che riguarda ogni personaggio che la trama. Come in ogni “noir” degno di questo nome, qui non ci sono buoni, non c’è redenzione e non c’è lieto fine: nella vita il lieto fine non esiste. Questo Carlotto lo sa , lo scrive benissimo e non potrebbe essere diversamente.
Questo non è un romanzo per palati fini, è un romanzo per palati forti, disposti ad assaporare anche i gusti più estremi senza fare smorfie, godendone l’asprezza facendo della lettura un’esperienza di vita propria. Come sempre accade quando si è di fronte ad un opera d’arte degna di questo nome.
Recensione di Daniele Borghi