Sport sotto l’assedio: tutta questione di campo. In questa terra non esiste un campionato di calcio nazionale, in realtà nessuno sport è praticato a livello professionale nel senso che noi potremmo intendere. Non si sa perché ma qui non si riescono proprio a rispettare gli orari delle partite: le squadre arrivano tardi sui campi di gioco; ritardi di ore, di giorni, a volte non arrivano per niente. E poi non è facile trovare atleti disposti a giocare come professionisti: molti temono di potersi rompere le ossa in qualche contrasto duro e il servizio ospedaliero non è dei migliori. E infatti non troverete nessuno con i colori nazionali di questa terra alle prossime olimpiadi. Nessun calciatore che urlerà “goal” in mondovisione.
Ma proprio qui, lontano da grandi stadi, riflettori, telecronisti isterici, moviole e fiumi di denaro, lo sport può ritrovare la sua dimensione atavica: quella di un gioco che fa socializzare, sudare, comunicare, e che fortifica il corpo e l’animo.
E’ il posto adatto per la carovana di “Sport sotto l’assedio”; anzi, diciamoci la verità, solo qui potevano accettarci sotto l’etichetta “sportivi”; noi che si gioca una volta al mese (i più fortunati) sui campetti comunali di periferia o durante gli spacchi delle lezioni universitarie, o durante le lezioni stesse. Plauso, quindi, a sportive e sportivi di Palestina per aver avuto il buon cuore di incontrare 100 ragazzi e ragazze italiani sui loro campi di calcio e di basket. I nostri fisici erano più adatti ad incontri culinari che sportivi, fatte ovviamente le dovute rare eccezioni. E infatti, per il pranzo, una voce propone: “trattoria fuori le mura”.
Tuttavia per andare in visita in cento in territorio palestinese un motivo bisogna averlo, è questione d’immagine. All’ aeroporto di Tel Aviv prima di lasciarci tornare in Italia, stanchi e provati da 8 giorni di intensa attività sportiva, erano tutti lì a chiederci cosa avessimo fatto in Palestina. Ci sono volute cinque ore per spiegare che eravamo andati solo a giocare a calcio. Nessuno mai ha mostrato così tanto interesse per quello che faccio nel mio tempo libero.
La carovana “Sport sotto l’assedio” nasce nel 2004 per iniziativa di due associazioni milanesi: Jalla Onlus e Salah Onlus. Il primo risultato ottenuto è stato quello di portare in Italia, tramite una raccolta fondi, la squadra giovanile di calcio dell’Ibdaa Cultural Center che ha potuto così partecipare ai Mondiali antirazzisti di Montecchio 2004. Era la prima volta che la squadra aveva la possibilità di uscire dal campo profughi di Dheisheh.
Il progetto è poi cresciuto con gli anni coinvolgendo altre realtà come la Unione Italiana Sport Per Tutti, l’Ong Crocevia, i centri sociali romani Corto circuito, La Strada, Strike, Forte Prenestino e Laurentino Occupato.
L’idea è quella di utilizzare lo sport come ponte tra culture diverse ed emblema di un messaggio molto semplice: “se esiste una sola casa per tutti gli esseri umani, il mondo, convivervi armoniosamente è l’unica scelta possibile”. E lo sport di squadra, con il suo bisogno di sincronizzazione e affiatamento, può ben essere il simbolo di questa armonia tanto necessaria. Necessaria perché ogni sofferenza, violenza, discriminazione o lutto subito da una parte dell’umanità è uno sfregio all’essenza stessa dell’umanità tutta.
Per unire c’è bisogno di essere almeno in due e di essere disposti a conoscersi e rispettarsi, in questo caso, per lo strano esperimento, hanno fatto da cavia Italiani e Palestinesi, ragazzi e ragazze.
La prima partita di calcio maschile viene giocata con i tassisti palestinesi sul cemento del parcheggio antistante il valico di Erez. In realtà il programma avrebbe previsto una partita di calcio femminile presso il campo profughi di Khan Yunis nella Striscia di Gaza ma l’evento sportivo è saltato per uno di quei ritardi fisiologici nella storia calcistica palestinese.
Non è il miglior modo di cominciare, ma la carovana non si demoralizza e continua il suo cammino diretta verso l’università di Abu Dis dove si gioca la partita di basket femminile e la squadra di “Sport sotto l’assedio” viene sonoramente sconfitta per 14 a 8. Intorno tanto cemento, ma sembra di giocare in un uno spazio libero. Sarà il sole allo zenit che fonde ogni capacità percettiva.
Altro campo profughi, altra sconfitta. Stavolta è la squadra di calcio maschile ad essere battuta per 8 a 1 da quella di Jayyous. Gli italiani apparivano in debito d’ossigeno, strano, stavolta non eravamo circondati dal cemento, il campo era in terra e intorno c’era solo una rete metallica da cui il vento e l’aria potevano passare.
L’andazzo è questo, sconfitte su sconfitte, fino a che, a Qalqilya,succede qualcosa di inspiegabile e i ragazzi conquistano la loro unica vittoria, 2 a 0 sulla squadra locale. Al di là dei punteggi quello che conta è che ci sia stato un vero “gioco di squadre”. Partite di 15 minuti per tempo sono state l’occasione per un’ invasione di campo, per scavalcare la rete di recinzione e passare ore a contatto con i ragazzi e le ragazze di città e campi profughi palestinesi, conoscere i luoghi in cui vivono, la loro storia e la loro cultura.
Dehisheh: 12.000 abitanti per mezzo chilometro quadrato di terra, neanche un metro in più, il piano regolatore lo vieta. Lo spazio è poco ma i costruttori sono stati previdenti; ferro e pilastri spuntano dal tetto di ogni palazzo nel caso in cui, un giorno, si dovesse aggiungere un piano. Il campo profughi si sviluppa in verticale e per questo l’unico panorama possibile è dall’alto di un tetto.
Qui c’è l’Ibdaa Cultural Center, il nome significa “creare dal nulla” perché dal nulla è stato costruito il centro con l’intenzione di fornire alla popolazione del campo tutto ciò di cui possa aver bisogno. Lungo le scale dell’edificio ogni centimetro di parete è coperto da murales, uno in particolare raffigura delle tende da campo con su scritto un anno, il primo in ordine cronologico è il 1948, intorno alle tende delle grosse chiavi pendono impigliate tra le maglie contorte del filo spinato: è la storia del campo di Dehisheh che nel 1948 accolse i profughi provenienti da 46 villaggi della zona tra Hebron e Gerusalemme. Le chiavi sono quelle delle vecchie case degli abitanti del campo; oggi servono a tener viva una speranza: le persone più anziane le hanno conservate, ne hanno fatto un ciondolo da portare al collo “perché – dicono – un giorno torneremo nelle nostre terre”.
L’Ibdaa Center accoglie la carovana con uno spettacolo di danza; anche questo come i murales racconta la storia di un popolo. Ogni gesto richiama un rito, un evento un momento di vita quotidiana e la realtà rappresentata sembra più dolce avvolta nel calore delle luci della sala, accarezzata dalla delicatezza dei movimenti come la figlia ineluttabile dei tempi. Lo sguardo fiero di questi ballerini sostiene la drammaticità di ciò che raccontano i loro corpi, fino a che la voglia di commuoversi lascia spazio all’estasi più pura. Il racconto si snoda come se fosse egli stesso fatto di piccoli passi, e così sembra elaborarsi e superare la sua durezza.
Se la cultura fosse espressa sempre in questa degna maniera nessuno avrebbe il coraggio di parlare di “scontri di civiltà”; le civiltà non possono scontrarsi perché costituiscono il superamento pacifico di ogni conflitto. E se così non è, è solo perché l’uomo non è mai stato civile. Le culture non possono dichiararsi guerra per il fatto stesso che esse si nutrono delle loro differenze, vivono le une delle altre e sono il superamento razionale di ogni violenza istintuale. E se l’uomo continua a far guerra a se stesso è solo perché l’essere umano è ancora ignorante. Forse per questo si erigono muri tra le diverse culture e si cerca di manipolarle più che diffonderle: si vuole evitare che il mondo possa fare a meno dell’ignoranza perché questa è lo strumento di realizzazione dell’interesse di pochi. E così ebraismo e islamismo rimangono divisi da un passo che si è voluto fosse fisicamente impossibile compiere.
Il primo Patriarca
A pochi chilometri da Betlemme, nella città di Hebron, si trova la tomba di Abramo, luogo sacro sia per gli Ebrei che per gli Arabi. Abramo è il primo patriarca dell’ Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam che vengono dette religioni abramitiche proprio in virtù della loro presunta discendenza comune. La storia di Abramo è narrata nel Libro della Genesi e ripresa nel Corano. Il profeta Maometto venerava il patriarca biblico in quanto monoteista ante-litteram. Il pronto ubbidire all’ordine divino di uccidere il proprio figlio, ne fa un perfetto esempio di muslim, cioè “assoggettato a Dio”.
Come molto spesso accade, ogni cosa è figlia di un’altra e solo dopo si separa e si mette in antitesi ciò che, in origine, è semplicemente diverso, ignorando che diversità e separazione antitetica non sono concetti omologabili.
La striscia di Gaza
L’area dell’odierna Striscia di Gaza coincide approssimativamente con quella abitata dai Filistei in tempi biblici e il cui nome ebraico era: Peleshet. I Filistei erano una popolazione del Medio Oriente antico giunta sulla costa del Mediterraneo nel 1175 a.c. e probabilmente di origine pre-greca. Della guerra tra gli ebrei Israeliti ed i Filistei si parla nella Bibbia: è l’episodio dello scontro tra Davide e Golia. Davide, re di Giudea e poi di Israele, taglia la testa di Golia, guerriero filisteo il cui nome antico, Golyat, significa “passaggio”, “rivoluzione”. Nell’anno 135, l’imperatore romano Adriano diede all’area, provincia dell’impero romano, il nome di Palestina, riprendendo l’antico nome dei Filistei. La denominazione romana, adattata alla fonetica della lingua araba giunta nell’area con l’espansione dell’Islam, è alla base del nome arabo Filastin, che significa appunto Palestina.
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Articolo e reportage fotografico di Salvatore Altiero
Bel lavoro, Sal!
è molto bello, pieno di sgnificti e indicazione di come si fa avivere sotto assedio e sotto l’occupazione.figuriamoci per uno sportivo italiano a trovarci in qui condizioni.
Credo che il nome di Palestina comprende tutta la palestina e non si limita ai confine di Gaza, come è stato scritto “L’area dell’odierna Striscia di Gaza coincide approssimativamente con quella abitata dai Filistei in tempi biblici e il cui nome ebraico era: Peleshet”. anche se in fondo all’articolo laquestione viene ben chiarita, rimane in contrasto con l’inizio.
bel lavoro e complimenti per tutti/e quelli che hanno fatto questo grande lavoro, sociale culturale e politico.
[…] Bashir, lascia ben poco all’immaginazione riferendosi a fatti crudi e reali: il massacro dei palestinesi abitanti dei campi profughi di Shatila da parte dei falangisti libanesi, coperto dall’esercito […]