A quarant’anni dalla scomparsa, descrivere significativamente una personalità multiforme e sfaccettata come quella di Pasolini nell’angusto spazio di un articolo commemorativo, sembra un’impresa ai limiti dell’impossibile. Di contro, il non provarci nemmeno sarebbe indubbiamente un torto maggiore. Già, perché Pasolini è stato un kaleidoscopico insieme di talenti, capace di raggiungere una compiutezza artistica figlia di un sincretismo raro in grado di unire qualità e quantità, connotato da un’instancabile vocazione diretta alla ricerca delle caratteristiche della persona, intesa come individuo organico alla comunità e propenso ai rapporti col ceppo sottoproletario, bensì dotato di una forza comunicativa e d’adattamento situazionale sconosciuta alla borghesia “educata” dall’entropia del benessere. Sembra quasi paradossale dover raffrontare Pasolini con la branca più disagiata della società. Che un intellettuale della sua caratura e complessità prediligesse i rapporti con il ceto “incolto” pare a prima vista una contraddizione di fondo, ma essa cela in realtà la recondita provocazione tipica di Pasolini che da un lato disprezza le sfere elitarie della società (della quale peraltro anch’egli ha fatto parte) ma dall’altro poggia su di essa le basi per giungere dritto al cuore dei popolani tramite interviste, metafore ed espressioni che fanno breccia tanto nell’animo degli interessati quanto nella testa degli intellettuali che, attraverso i romanzi, credono di aver disvelato ogni arcano relativo alla decifrazione del “Pasolini pensiero”. Ma il Pasolini romanziere è soltanto una delle tante incarnazioni dell’autore di Ragazzi divita e di Una vita violenta: prima e dopo, c’è il Pasolini poeta (soprattutto) e regista, attore e giornalista, notista e sceneggiatore, saggista e drammaturgo. Questo e altro ancora per quanto concerne la storia e la letteratura italiana, un intellettuale in grado di dimostrarsi in anticipo sulle tempistiche del progresso (o regresso, col senno di poi) e d’interpretare i malesseri della società spingendosi oltre con lo sguardo lucido e disincantato di un iconoclasta incapace di ricorrere a mediazioni o compromessi di alcun tipo. Ecco perché sembra di una difficoltà immane racchiudere Pasolini in poche, scarne righe. Ma come detto, il non provarci nemmeno risulterebbe decisamente profano.
LA VITA
Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna, il 5 marzo del 1922, ma la sua terra d’adozione sarà quel Friuli nel quale troverà la propria dimensione di poeta, precisamente nella piccola Casarsa (della Delizia), luogo al quale Pasolini resterà indissolubilmente legato e da cui si distaccherà drasticamente sul finire degli anni ’40, quando partirà assieme all’adorata madre alla volta di Roma in seguito all’espulsione dal PCI decretata in conformità di un artificioso processo culminato nell’accusa d’indegnità morale per concussione di minori. Saranno queste alcune delle componenti che costeggeranno il tormentato percorso dell’esistenza del poeta, cominciando proprio da un polemismo a distanza che vedrà il Pasolini comunista prendere a più riprese le distanze dalle tematiche del partito e dai movimenti di piazza, spesso in aperta contraddizione con gli stilemi basilari del PCI stesso. Il Pasolini dichiaratamente anti abortista, ma soprattutto colui che a Valle Giulia stava “coi poliziotti in quanto figli del proletariato”, parafrasando una poesia che sarebbe divenuta il simbolo del libero pensiero avulso dalle logiche rigide della teoria degli opposti estremismi, il Pasolini malvisto in quanto dichiaratamente omosessuale, ciascuno di questi tasselli compone il mosaico di una personalità inquieta e mai prona davanti alla morale corrente, antiretorica e sarcastica ma lucida e spietata nell’infilarsi metaforicamente tra le contraddittorie maglie di un potere che egli stesso dichiarava di voler processare, inchiodando ipoteticamente i potenti ed i loro potentati alle responsabilità che essi evadevano con una politica dissennata e corrotta, finendo per illudere il popolo, ovvero quello che Pasolini sentiva come una famiglia. Già, la famiglia. O almeno una parte di essa. Perché proprio il concetto di famiglia concorrerà a forgiare il carattere del Pasolini uomo oltreché poeta. Il rapporto non idilliaco col padre ufficiale di fanteria e l’amore viscerale di pascoliana memoria nei confronti della madre si rifletteranno sulla sua formazione poetica, ma l’evento drammatico che ne stravolgerà la vita, sarà la tragica scomparsa del fratello Guido, caduto in un’imboscata nel bel mezzo dei massacri del Porzus quando la seconda guerra mondiale sta per volgere al termine. La ferita non cicatrizzerà mai completamente, neanche quando Pasolini a Roma diverrà uno scrittore affermato e conoscerà una fama che seppur intervallata da un nugolo imponente di polemiche e intimidazioni lo accompagnerà fino al termine del proprio percorso (umano ed ovviamente letterario), con la silenziosa figura della signora Susanna Colussi sempre al proprio fianco assieme a letterati di spicco come Moravia, Elsa Morante o Dario Bellezza, intellettuali pronti ad accogliere euforicamente ogni nuova proposta pasoliniana (letteraria o cinematografica che essa fosse), magari anche con lo spirito critico che riflette un’Italia tipicamente anni ’70, contestataria ma perennemente in balia di presunte rivoluzioni e governi che saltano dall’oggi al domani in nome dei consueti equilibri di partito, sottolineati implacabilmente proprio da Pasolini all’interno della fondamentale raccolta Scritti corsari. Difficile aggettivare in modo chiaro ed efficace la figura di Pasolini relativamente alla “vita” di se medesimo: raramente si incontra nel percorso di un letterato una tale confluenza tra il sentimentalismo legato ai paesaggi agresti adorati in gioventù ed un razionalismo schietto e dissacrante ai limiti del pessimismo più radicale, con il corollario di becere strumentalizzazioni (soprattutto a causa dell’orientamento sessuale) utilizzate tanto dall’avversata destra quanto da una sinistra acritica ed incapace di ripensare se stessa, limitando e di molto il giudizio sull’operato di uno scrittore spaventosamente in anticipo sui tempi (le critiche ai media ed alla società dei consumi, su tutti riguardo alla televisione) e riottoso a qualsiasi forma di netta identificazione preordinata. In cinquantatré anni di vita, Pasolini ha detto e scritto molto, ha tratto dai propri ragionamenti numerose conclusioni pagandone innumerevoli conseguenze, ma non per questo ha ottenuto ancor oggi lo status che meriterebbe da un punto di vista squisitamente Umano, se non altro per la statura immensa di intellettuale puro enormemente in anticipo rispetto ai contemporanei. Oggi come ieri, la lungimiranza è vista ancora come una pecca.
LE OPERE
La prima pubblicazione di Pasolini avviene quando la seconda guerra mondiale è ancora in atto, precisamente nel ’42: nonostante il volume veda la luce nella natia Bologna, le Poesie a Casarsa contengono già le caratteristiche di fondo che accompagneranno lo scrittore durante la sua produzione, partendo dall’uso del dialetto (in questo caso quello friulano) e dall’attaccamento alla regione giuliana in quanto teatro di paesaggi miti ed incontaminati dove lo scrittore soleva soggiornare durante le ferie estive, una predilezione per l’ambientazione bucolica che proseguirà a manifestarsi più o meno regolarmente nelle opere a venire sia del Pasolini poeta che scrittore. L’eccellente qualità della poesia proposta prosegue con altre raccolte (quali i Diarii ed I Pianti) culminanti nel dittico Tal cour di un frut (Dal cuore di un fanciullo, 1953) – La meglio gioventù, pubblicato in italiano nel 1954 con una ri-stesura delle precedenti poesie friulane che fanno da prologo al capolavoro Ragazzi divita, editato l’anno successivo e destinato a diventare con i suoi personaggi, le sue storie (di vita, appunto) e l’uso del dialetto romanesco uno dei capisaldi dell’attività letteraria di Pasolini, tanto da plasmare l’appellativo “pasoliniano” che verrà utilizzato nel descrivere qualsiasi ragazzo sbandato di borgata o periferia votato a rifiutare le convenzioni della vita borghese. Il grande successo, anche di pubblico, verrà bissato nella medesima forma con Una vita violenta, ancor più corrosivo del precedente e stilisticamente perfetto nella nuova descrizione del sottoproletariato romanesco del dopoguerra. A cavallo tra i due romanzi, un’accoppiata di splendide pubblicazioni poetiche come Le ceneri di Gramsci (1957), vero gioiello che raccoglie undici “poemetti” fondendo poesia e saggistica articolata in versi, oltre all’Usignolo della chiesa cattolica, una manciata di liriche pubblicate tra il 1943 ed il 1949 e quivi raccolte nell’intento di coprire un arco temporale che va dall’esordio del poeta fino alla “fuga” a Roma a seguito dell’espulsione dal PCI patita in Friuli. Ma è nel 1961 che Pasolini irrompe con decisione nel mondo cinematografico. Dopo aver partecipato ad alcune sceneggiature, l’esordio dietro la macchina da presa di Accattone è folgorante, con la scoperta dell’attore feticcio Franco Citti (fratello del regista Sergio, vero deus ex machina della cinematografia pasoliniana) che parteciperà al grosso delle produzioni del regista assieme a Ninetto Davoli, altro volto scoperto nelle periferie romane in grado di incarnare assieme allo stesso Citti il prototipo del “ragazzo” descritto da Pasolini nei propri romanzi. L’alternanza tra letteratura, cinema e giornalismo proseguirà incessante fino alla scomparsa dell’autore. Indimenticabili resteranno i capolavori di Mamma Roma, sorretto da una Anna Magnani superlativa o la lucida, religiosa laicità del Vangelo secondo Matteo, avversato dai fascisti a Venezia che non ne condividono la descrizione umana e poco sacrale di un Cristo terreno immortalato tra i suggestivi Sassi di Matera (non certo il Caviezel della spazzatura in celluloide di Mel Gibson), proseguendo il discorso con un Toto’ impeccabile e scevro da responsabilità da cassetta nel fantastico Uccellacci e Uccellini, prima di confrontarsi col mito greco di Edipo Re o Medea e di realizzare la celeberrima “Trilogia della vita” composta dal Decameron (’71), I racconti di Canterbury (’72) e dal Fiore delle mille euna notte (’74), tre opere che partendo rispettivamente da Boccaccio, Chaucer e dalla letteratura orientale fondono poesia ed erotismo attraverso la settima arte, ma verranno presto scopiazzate da un filone di filmetti paralleli ed insulsi, i quali origineranno una tendenza che costringerà l’autore alla famosa “abiura dalla trilogia”. Chiuderà la carriera cinematografica Salò ole 120 giornate di Sodoma, ma ci torneremo più avanti, mentre è d’obbligo segnalare l’intensa attività di articolista per il Corriere della Sera, con interventi sempre controcorrente e mai banali raccolti nei volumi Scritti Corsari e Lettere Luterane, mentre appaiono meno riuscite certe piece teatrali eccessivamente ideologiche come Affabulazione (a conti fatti la migliore delle proposte) o Pilade o ancora Il padre selvaggio. Chiaramente, la carriera cinematografica di Pasolini diverrà, a livello di immagine pubblica, addirittura preponderante sulla sua attività di scrittore, ma ciò non toglie che il prosieguo delle sue pubblicazioni sia rimasto di altissima qualità, basti pensare ai romanzi Alì dagli occhi azzurri o Teorema, oppure alla raccolta Trasumanar e Organizzar, purtroppo l’ultimo capitolo del Pasolini poeta. Ma per comprendere la grandezza del personaggio è necessario un flashback di una decina d’anni e riportare la memoria al 1964, anno in cui Pasolini licenzia la meravigliosa summa di Poesia in forma di rosa, uno degli zenit dell’intero itinerario del poeta, con momenti di altissimo lirismo ed alcuni versi che tolgono il fiato per la profezia nefasta che sembrano contenere, trai quali risulta impossibile non citare quel Solo, o quasi, sul vecchio litorale/ tra ruderi diantiche civiltà/ Ravenna Ostia o Bombay – è uguale/… e la chiusura di Comincerò pianopiano a decompormi/ nella luce straziante di quel mare/poeta e cittadino dimenticato. Questi versi datano 1964, e ripensando a com’è andata a finire undici anni più tardi… è difficile non sentirsi percorrere da un brivido.
LA MORTE
Dai paragrafi precedenti, volutamente sono state espunte due delle produzioni primarie di tutto il percorso umano e culturale di Pasolini: Petrolio, l’ultimo libro pubblicato e Salò o le 120 giornate di Sodoma, il capitolo cinematografico conclusivo del Pasolini cineasta. Entrambe le opere sono postume, visto che sia Petrolio che Salò vedranno la luce solo dopo l’assassinio del poeta. Pasolini viene rinvenuto morto all’Idroscalo di Ostia il 2 novembre 1975, ufficialmente (o ufficiosamente, ma in questo caso i due termini suonano come sinonimi) massacrato di botte da uno dei suoi “ragazzi di vita” dopo un incontro sessuale finito male. La verità di comodo non convince quasi nessuno già dal principio (dai fratelli Citti, a Moravia, a Ninetto Davoli) ma verrà confezionata ed impacchettata ad hoc per presunti intellettuali ed opinionisti ciarlieri, mentre il popolo benpensante liquida la questione sotto forma di epitaffio nei confronti di un pervertito che “se l’è andata a cercare”. Pasolini muore in realtà nel luogo da egli stesso profetizzato, in una sorta di uscita di scena quasi inevitabile se rapportata alla scomodità del personaggio ed alla violenza delle proprie invettive, e la configurazione di “assassinio di stato” assume oggi la fisionomia di un’espressione tutt’altro che complottista. Probabilmente, Pasolini stesso dentro di sé era conscio dei rischi che correva, lui che era un cane sciolto e che non arretrava dinanzi a nulla, lui che continuando su quella falsariga si avventurava su un terreno sempre più scosceso e che lo avrebbe condotto al “sacro martirio”, come analizzato nello splendido Morte di Pasolini dell’amico poeta Dario Bellezza. E Petrolio è parte attiva di ciò, corposo zibaldone che frulla autobiografia, cronaca, poesia, disillusione, con accenni alla politica più marcia ed oscura del dopoguerra (le allusioni alla misteriosa morte di Enrico Mattei) ed il pessimismo leopardiano che ne pervade l’opera. Ed ancora più funebre suona il manifesto di Salò, esasperazione della depravazione di un potere che opprime e stupra l’Essere nella mente e nella carne, con il suo carico di antierotismo e lucida descrizione dell’assoluta volontà di sopraffazione sociale che trova compimento solo mediante l’esplosione di oscenità perpetrate ai danni dell’individuo che non sa e non può difendersi, una metafora ardita e parossistica della violenza psicologica subita da un autore che per trentatré volte venne trascinato in tribunale con accuse in prevalenza di matrice ideologica. Sembra quindi obbligatorio chiudere il cerchio con Petrolio e Salò, nel descrivere vita, opere, patimenti e fine di una delle penne maggiormente illuminate e preveggenti dell’intero novecento. A quarant’anni dallo scempio dell’Idroscalo, gli assassini di Pasolini non hanno ancora un nome (se non di comodo) ed il dibattito attorno alle sue opere prosegue, mentre un’ampia fetta di critica tuttora continua a considerare Pasolini e le sue produzioni come pornografia spiccia, ignorandone capisaldi come l’acutezza, l’onestà intellettuale e la totale assenza di compromessi, soprattutto la netta e precisa volontà di non rinunciare in nessun caso ad esprimere un pensiero controcorrente che mai ha ammiccato ad un polemismo di facciata oppure alla ricerca di chissà quale pubblicità gratuita. Nonostante le chiacchiere e le speculazioni, a noi restano le sue opere. Che siano stampate o filmate, che se ne scriva o dica bene o che se ne parli male al bar, a questo punto poco importa. Dopo quarant’anni le parole, specialmente se vuote o pretestuose, se le porta via il vento. Le sue analisi no. E le sue poesie, quelle con cui aveva cominciato, per intenderci, nemmeno. Ed a coloro che ne condividono l’assoluta grandezza, può bastare anche così.
Reportage di Fabrizio ‘82