Roma, Palazzo delle Esposizioni – dal 9 aprile al 30 giugno 2019
L’evocativo titolo Il corpo della voce riempie gli spazi del Palazzo delle Esposizioni, sviscerando parole ma soprattutto suoni in grado di affrontare e nobilitare le tematiche portanti su un’illustre sconosciuta, tanto scontata quanto fondamentale e sulla quale numerosi punti interrogativi continuano a rimanere tali: la voce. Questa bellissima mostra è strutturalmente divisa in due capitoli: il primo basato su un’introduzione curata dal professor Franco Fussi, specialista del settore, che spiega le complesse dinamiche che regolano la modulazione vocale nell’essere umano raffrontando diverse situazioni, come le differenze che intercorrono tra uomo e donna, cantanti melodici e metal (si accenna anche all’utilizzo dello scream o del growl ) e chiudendo con un excursus sull’evoluzione della voce nel corso dei secoli. La seconda sezione prevede invece delle monografie dedicate a tre degli artisti che maggiormente hanno sperimentato le complesse alchimie che la voce utilizzata come strumento può offrire, ossia Demetrio Stratos, Cathy Berberian ed il grandissimo Carmelo Bene, il tutto corredato da molteplici installazioni sonore frammiste a filmati di repertorio che permettono di apprezzare le qualità di queste personalità dall’importanza capitale relativamente alla materia trattata. Di Demetrio Stratos (1945-1979) di cui tra l’altro ricorre in questi giorni il quarantennale dalla prematura scomparsa, sappiamo già moltissimo. Greco nato ad Alessandria d’Egitto ma italiano d’adozione, dopo gli inizi beat nei Ribelli fonda i leggendari Area, prima di intraprendere un percorso unico e complesso che ancora oggi lo propone come uno dei più grandi innovatori sperimentali del novecento: lo studio della voce. Dalle collaborazioni con John Cage a complicatissimi scioglilingua in greco, passando attraverso reinterpretazioni di Artaud, esercitandosi poi in Diplofonie e Quadrifonie, fino a diventare oggetto di studio da parte addirittura del CNR, Stratos allarga i propri orizzonti e raggiunge risultati forse ineguagliati, pubblicando lavori complessi come Metrodora e Cantare la voce che lasciano l’ascoltatore di stucco dinanzi ai 7000 hz toccati in estensione orizzontale, cimentandosi in ogni genere di sperimentazione vocale col piglio e la curiosità dello studioso tout court. L’improvvisa morte sopraggiunta all’età di 34 anni ha privato la musica (e non solo) di uno dei più fulgidi talenti che essa abbia mai vantato, lasciando irrisolto il quesito su quali altri risultati avrebbe mai potuto raggiungere questo talento vocale geniale e mai sazio di conoscenza in materia. Altra esponente d’importanza capitale nell’utilizzo della voce è stata la cantante Cathy Berberian (1925-1983). Mezzosoprano, interprete poliglotta, legata da un lungo sodalizio (anche umano) con il compositore Luciano Berio oltre che da quello col maestro Sylvano Bussotti, sfruttò la sua vocalità incredibilmente espressiva per declamare versi come quelli di Italo Calvino o di Joyce nel Thema Omaggio (1958), imponendosi come una delle voci di primaria grandezza nella narrazione delle tematiche relative alle avanguardie del novecento, interpretando con pathos e versatilità unici sia frammenti di poesia futurista che segmenti di teatro dell’assurdo, senza dimenticare il cantato di matrice melodico o le arie di Stravinskij. Fondamentale poi nel percorso della Berberian l’incontro col pittore Eugenio Carmi che originò l’episodio di Stripsody, saggio onomatopeico che evidenzia la perfetta fusione tra interpretazione e cultura popolare e che pone in risalto un’altra delle tantissime sfaccettature della personalità multiforme della cantante di origine armena. La terza sezione riguarda un gigante della cultura e del teatro del novecento non solo italiano, quel Carmelo Bene (1937-2002) da sempre personaggio discusso e dai tratti controversi, dagli atteggiamenti border line e foriero di costanti provocazioni che costringevano anche coloro che lo detestavano ad esaminarne la poetica con metodo eufemisticamente wildeiano. Essendo impossibile compilare una lista delle complesse e numerosissime produzioni di Bene, risulta maggiormente importante ricordarne la dedizione e l’attenzione nello studio e nell’applicazione della voce in scena, ossia quel complicato concetto da egli stesso definito Macchina Attoriale, che permette alla voce di staccarsi dal concetto di parola e diventare essa stessa mezzo di comunicazione, mediante diverse intonazioni, gorgheggi, stridii che compongono una sorta di spettacolo-concerto di difficile assimilazione, ma evocativo di un linguaggio appartenente ad un teatro quasi futuristico che difficilmente ha avuto eguali. Il tutto fruibile attraverso i filmati di repertorio e le tracce sonore a disposizione del pubblico della mostra, senza dimenticare le decine di manoscritti, copioni dattiloscritti o le opere di Carmi sopra descritte ed ivi esposte. Indubbiamente una proposta fuori dagli schemi, ben concepita ed articolata in maniera ordinata che permette tanto al neofita quanto al visitatore già a proprio agio di apprezzare ogni branca dell’esposizione. La parte iniziale come detto può risultare indigesta a causa dei tecnicismi presenti nell’elaborazione dei concetti, ma è necessaria al fine di comprendere sia ciò di cui stiamo parlando che per idealizzare come si sia evoluto il concetto di voce nell’essere umano (uomo/donna, neonato/bambino/adolescente), prima di concentrarsi sulle tre figure in questione, il trittico Stratos-Berberian-Bene che monopolizza l’attenzione dello spettatore e permette, anche se non definitivamente, di indagare, conoscere e comprendere le potenzialità di questo strumento stupendo che la natura ci ha donato e che arbitrariamente abbiamo chiamato voce.
Recensione di Fabrizio ‘82