Non ho mai iniziato un articolo parlando in prima persona. Ma stavolta è diverso. Quando, con la TV occasionalmente sintonizzata sulle melensaggini del Festival di Sanremo, è apparsa la solita, inespressiva maschera di Fabio Fazio ad annunciare in diretta la morte di Francesco Di Giacomo, ammetto di aver impiegato una ventina di secondi a metabolizzare la notizia. Realizzata la questione, sento una fitta allo stomaco che mi avverte immediatamente del fatto che il Banco in concerto non lo vedrò più. Che non lo vedremo più. Già, perché anche se sei nato solamente nel 1982, nessuno ti ha mai vietato di crescere con dischi che hanno visto la luce mentre tu non eri neppure in programma. Sembrerà, ai sessantenni odierni, di essere tornati al febbraio del 1987, con Baudo che in diretta e sempre da Sanremo annuncia al pubblico la morte di Claudio Villa. Certamente, la cassa di risonanza del nome in questo caso è diversa, ma provo ad immaginare solamente la tristezza provata da coloro che nel 1972 c’erano, ricordano il Banco d’allora e quello più scanzonato di oggi, che continuavano a seguirlo nei concerti assieme a noi giovani (…) e che ora hanno perso un punto di riferimento di una generazione (la loro) che non tornerà mai più. Ora, dalla presunzione dei miei trent’anni e poco più, mi rendo conto che un pezzo della storia del prog italiano all’improvviso non c’è più. Figuriamoci come staranno loro, i trentenni di ieri. Se poi ripenso al fatto che, mentre ero sdraiato con la TV distrattamente accesa, indossavo (come spesso accade) la T-shirt con il Salvadanaio del Banco del Mutuo Soccorso, e successivamente focalizzo l’attenzione sul mio esordio come collaboratore di Slowcult, non posso fare a meno di ricordare che il primo articolo che scrissi in assoluto riguardava proprio la ristampa del Salvadanaio del Banco! Faccio uno più uno e mi rendo conto che stavolta, ma solo stavolta, scriverò un articolo iniziando a narrare in prima persona. Col rischio, s’intende, di sembrare ridicolo nell’incedere del mio requiem laico nei confronti di un artista tanto amato, che d’improvviso s’è visto spegnere il microfono.
Nato nel 1947 a Siniscola, Di Giacomo studia canto da autodidatta. Ben presto inizia a scrivere versi, poesie, aforismi che di lì a poco si tradurrano in musica. E che musica! Dopo un breve passaggio nell’ingenuo gruppo post-beat delle Esperienze, l’incontro con i fratelli Gianni e Vittorio Nocenzi partorisce il Banco del Mutuo Soccorso, nume che diverrà tutelare nel contrassegnare la stagione progressiva italiana dei gloriosi seventies, nonché punta di diamante di un rock made in Italy per certi versi ineguagliabile, grazie all’accostamento tra liriche poetiche e tecnicismi strumentali al servizio di una delle voci più calde dell’intero panorama musicale della penisola. Quella, appunto, di Francesco “Big” Di Giacomo, stazza imponente e barba biblica da profeta. I testi profondi e ricercati sono enfatizzati dal cantato baritonale di Francesco, le sue rasoiate vocali costruiscono trame melodiose che s’incastrano alla perfezione tra le dominanti tastiere dei fratelli Nocenzi, sorta di marchio di fabbrica del Banco, una delle pochissime band del periodo ad avere tra i propri punti di forza le parti cantate. Ecco, allora, che nascono pietre miliari come l’esordio di Banco del Mutuo Soccorso (1972, per tutti… il “Salvadanaio) dove inni antimilitaristi alla R.I.P. si dividono il proscenio con suite meravigliose come Il Giardino del Mago, dove la voce di Di Giacomo è ora rabbiosa ora eterea, il tutto dopo aver aperto il disco con i versi che riecheggiano l’Ariosto nel prologo di In volo. E visto che le cose vanno per il meglio e l’ispirazione non manca, il Banco alza l’asticella e s’impegna in un concept sull’evoluzione: arriva Darwin, e Di Giacomo dimostra di aver perfezionato ulteriormente la propria tecnica, sfruttando appieno tonalità enfatiche amalgamate ad un’estensione oltre la norma. Per questi e mille altri motivi, uno dei brani manifesto del Banco diverrà proprio quel 750.000 anni fa… l’amore?, summa della versatilità interpretativa di Di Giacomo ed ulteriore conferma delle enormi doti possedute dal cantante anche in veste d’autore: per i palati più raffinati, il consiglio è quello di recuperare il suddetto brano all’interno del disco Nudo (1997) nella sua riproposizione live con l’accompagnamento delle fidate tastiere dei Nocenzi. Da brividi… e nient’altro da aggiungere! Il terzo atto del Banco capace di sfornare tre gioielli in due anni è quell’Io sono nato libero che rappresenta la definitiva maturità del gruppo. Ed ancora una volta, le parti cantate rivestono una componente essenziale nella riuscita del prodotto. Basta ascoltare l’iniziale, splendida, Canto nomade per un prigioniero politico, che supera il quarto d’ora di durata veleggiando su un’interpretazione enfatica tesa ad esaltare testi toccanti e commoventi che tra le righe raccontano l’infamia del golpe cileno ordito da Augusto Pinochet; ma “Big” fa ancora meglio con Dopo… niente è più lo stesso, lancinante auto-confessione di un soldato indirizzato al fronte in preda ad ideali patriottici, dei quali non rimangono come uniche tracce che le macerie (reali e morali) del confronto bellico e della disillusione della “giusta causa” (difensori della patria/baluardi di libertà), contrapposte al trauma che il conflitto ha comportato nella propria coscienza (perdio/ma che m’avete fatto a Stalingrado). Qui Di Giacomo dà fondo a tutto il repertorio: ora canta ora interpreta, sussurra e grida, si dispera senza autoindulgenza, modellando un brano che fa perno sulla voce arrotandosi attorno ai vorticosi giri di moog, dipingendo uno degli affreschi più emozionalmente elevati dell’intero decennio. La “trilogia d’oro” del Banco chiude la prima fase del gruppo, che proseguirà con alterne fortune rimanendo comunque sulla breccia fino al definitivo revival dei primi ’90, laddove ricominceranno i tour, e le esibizioni pubbliche faranno registrare pienoni di piazza al soldo di appassionati famelici, mai parchi di ascoltare l’ennesima variazione della deliziosa Non mi rompete, degna chiusura di ogni concerto della band. Banco a parte, Francesco Di Giacomo ha pubblicato, nel corso della sua lunga carriera, anche lavori solisti come Non mettere le dita nel naso (1989), partecipato a pièce teatrali (Cenerentola), senza dimenticare gli esordi come caratterista felliniano, da Satyricon (1969) a Roma (1972) fino ad Amarcord (1973). Ma la musica ha sempre rappresentato il vettore trainante dell’attività di Di Giacomo, inscindibile binomio assieme al Banco di qualità e coerenza, merci entrambe rare all’interno dell’asfittico panorama musicale italiano dei tempi recenti. Come a dimostrare che gli anni che passano abbiano sull’arte un impatto diverso rispetto a quello biologico. Poi, sul più bello, una sera di febbraio, un incidente stradale spegne la luce. E quel microfono. Ma The show must go on. Ed i Festival della (proto) canzone italiana proseguono, i risolini ed i teatrini non si fermano di certo. Per fortuna anche queste mediocrità mediatiche si susseguono e, anno dopo anno, inconsistenti, scivolano via. E passano. I grandi no. Loro restano. Nelle menti e nei cuori di chi li ha apprezzati. E la voce di Francesco non ci abbandonerà facilmente. Del resto, da lassù, Messere, si domina la valle.
Fabrizio ‘82
grazie Fabrizio di questo articolo a ricordo di una persona unica.