Venuto al mondo, di Sergio Castellitto. Con Penelope Cruz, Emile Hirsch, Adnan Haskovic, Pietro Castellitto, Saadet Aksoy, Luca De Filippo, Sergio Castellitto, Jane Birkin. Durata 127 min. – Italia 2012
Gemma torna a Sarajevo dopo 19 anni con il figlio Pietro per vedere una mostra fotografica dove sono esposte le fotografie del marito morto lì durante l’assedio della città dal 1992 al 1996. Nel viaggio lei ripercorrerà con la memoria la sua storia d’amore e gli eventi di come è venuto al mondo suo figlio Pietro.
Non posso recensire questo film senza fare riferimento al libro da cui è tratto: Venuto al mondo, scritto nel 2008 da Margaret Mazzantini è uno splendido romanzo, crudo e scritto con audace sincerità. A me ha ricordato altri romanzi che hanno la stessa forza emotiva e poetica uno tra tutti: “la storia” di Elsa Morante: un capolavoro. Margaret Mazzantini con questo libro è riuscita a esprimere la stessa compassione verso il dolore; il dolore di fronte all’inevitabile: la malattia, la morte, la guerra, la solitudine. Il senso del racconto è già tutto nel titolo: venuto al mondo. Un essere umano viene al mondo e non ha colpa del perché e del come è stato concepito. Prima della sua nascita, prima ancora di essere qualcosa, anche solo una cellula, c’è stato il dolore, l’attesa, la speranza, la tragedia in questo caso, ma lui non può essere portatore di questo, la sua venuta al mondo è come ogni altra nascita un evento naturale, puro pieno di fiducia.
Questa complessa e profonda esperienza di dolore e di accettazione del dolore, viene incarnata nel film, dal personaggio femminile principale, che è interpretato da Penelope Cruz, ma la stessa intensità non raggiunge gli altri personaggi della vicenda. Il peso della storia sembra poggiare tutto su Gemma, nonostante il vero protagonista della storia sia Pietro. Penelope Cruz è molto brava e autentica, gli altri attori sono meno convincenti e anche se tutti ben diretti, sembrano quasi costretti entro i limiti del loro personaggio. Gran parte del film è costruito sulla fotografia, molto bella, molto curata, ma che distrae, così come i primi piani sulle pause e sugli sguardi dei protagonisti, sembrano inutili escamotage per aumentare la drammaticità delle scene. Inoltre, cosa più importante, nel film manca l’elemento fondamentale: la compassione. Senza compassione ogni dolore diventa un grido sordo. Il film è un racconto di avvenimenti in sequenza, che appaiono anche frammentari e poco verosimili, tutti parlano in italiano, pochi personaggi marginali e talvolta Goiko si esprimono in serbo. Questa uniformità linguistica, appiattisce le differenze tra due realtà e distrugge in parte quella significativa distanza che esiste tra un paese distrutto da una guerra civile e uno che sembra ignorare anche l’esistenza di quella guerra. D’altra parte gli attori sono quasi tutti doppiati in italiano e questo è secondo me un altro limite del film. Non trovo che il film sappia esprimere con la stessa forza del libro, l’incontro tra due dimensioni umane e sociali, oltre a mostrare le atrocità della guerra. In questo film queste differenze sarebbero state necessarie ed è l’avvicinamento e il confronto drammatico e aperto con esse che crea la catarsi nel libro.
“La mia parola preferita è grazie” dice Goiko quasi alla fine del film salutando Gemma che torna in Italia, io trovo questa una bellissima frase e soprattutto ha un grande significato di pace e permette a un finale avviato verso un epilogo fin troppo melodrammatico e retorico, di esprimere anche se in extremis, come un colpo di scena, la luce della consapevolezza.
Fare un bel film da un bel libro può sembrare anche troppo semplice, questo film dimostra che non è così. Ogni forma d’arte comunica attraverso le proprie forme espressive, andare dietro passo dopo passo, scena dopo scena a un romanzo così ricco e complesso, senza permettersi l’audacia di trasformare parte di esso in un film e non in un documentario, è una scelta tecnica, non ci trovo alcuna espressione artistica.
Recensione di Costance