Ott 092014
 

Venezia, 27 agosto – 6 settembre 2014

SI SPENGONO LE LUCIvenezia 71

Equilibrio, qualità, moderazione, sobrietà, attenzione, regolatezza. Sembrano essere questi i parametri caratterizzanti la 71esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. In realtà questi termini di giudizio appaiono dominare tutte le ultime tre edizioni dirette da Alberto Barbera, creando un notevole distacco dalle kermesse precedenti guidate da Marco Muller, (ora al comando del Festival Internazionale del film di Roma).

Non è tanto importante stabilire chi tra i due direttori prevalga rispetto all’altro: è indubbio però constatare come durante l’era Muller (in particolare durante il primo mandato) il Lido risplendesse di entusiasmo e vita in ogni sua piccola sfaccettatura, sia all’interno delle sale che all’esterno del red carpet, bilanciando in maniera egregia lo star system con la qualità artistica. Al contrario, sotto l’egida di Barbera, le strade e le sale sembrano svuotarsi sempre di più, tutto è dominato da un’atmosfera dimessa, controllata.

E se un tempo la norma era quella di unirsi alle file chilometriche più di un’ ora prima della proiezione per evitare il rischio di rimanere fuori (si pensi a Inland Empire di Lynch, ma anche a Carnage di Polanski o a Il castello errante di Hawl di Miyazaki), oggi ci si può presentare in sala ad appena pochi secondi dall’inizio senza alcun pericolo.

E ancora: negli anni precedenti spesso si tornava nei propri letti oltre le due di notte, non necessariamente a causa di qualche festa notturna presieduta da vip, ma perché le premiere di Machete di Rodriguez o della copia restaurata di Milano calibro 9 di Di Leo iniziavano ben oltre la mezzanotte. Oggi invece le luci delle sale si spengono intorno alle 23.30 e non vi è traccia di party segreti dove chiunque, dalla fan esagitata al nerd accreditato, cercava disperatamente di partecipare.

Ma ovviamente il vero elemento cardine di una rassegna cinematografica è soltanto uno: la qualità dei film. E sebbene quest’anno all’elenco dei candidati siano mancati alcuni nomi importanti (P. T. Anderson, Fincher, Vallée), ogni sezione del festival si è attestata davvero a ottimi livelli artistici.

LE DELUSIONI

Anzi, a deludere più di tutti sono stati proprio i nomi su cui si confidava alla vigilia, uno su tutti Fatih Akin: con The Cut ★★☆☆☆ il regista si appropria di un materiale ben più grande di lui, trovandosi inerte e incapace nel dominarlo sotto qualsiasi aspetto, girando inesorabilmente a vuoto, come si evidenzia durante tutta la seconda parte. Spostarsi nei deserti armeni, a discapito dalla sua nativa e fidata Amburgo (dove sono ambientati i suoi esaltanti film precedenti), non è stata davvero una buona idea. Lo stesso si può dire di Al Pacino, presente al Lido con ben due film (Manglehorn ★½☆☆☆ di Green e The Humbling ★★☆☆☆ di Levinson) che non fanno che accentuare e sottolineare il decadimento artistico di una delle più grande star americane di tutti i tempi.

Anche il sempre amato Kim Ki-duk non ha convinto affatto: se il precedente Moebius aveva diviso il Lido, ma sempre all’insegna di un preciso linguaggio fatto di violenza e rarefazione, nell’ultima fatica One By One ★★☆☆☆ il maestro coreano appare quasi privarsi dei suoi stilemi classici, costruendo un film ricchissimo di dialoghi e inutilmente metaforico, dove le scene di tortura appaiono una scialba parodia di quelle a cui ci ha abituato. Delude anche il documentario di Alex De La Iglesia su Messi ★★☆☆☆: ci aspettavamo un Maradona di Kusturica ancora più anarchico, ma ci ritroviamo invece davanti a delle ricostruzioni di fiction del passato giovanile del calciatore che fanno più pensare a una telenovela spagnola.

volpiBuchi nell’acqua anche per due dei più importanti cineasti dell’oriente, Ann Hui con il suo soporifero e imbarazzante The Golden Era ★½☆☆☆ e Hong Sang-soo con i suoi inutili e irritanti rimandi alla Nouvelle Vague di Hill Of Freedom ★½☆☆☆ (Rohmer e Resnais questa volta sono da un’altra parte). Hanno infine lasciato un pò di amaro in bocca le ultime fatiche di Beauvois (La rançon de la gloire) ★★½☆☆, troppo indeciso su quale registro seguire, di Niccol (Good Kill) ★★☆☆☆, che come al solito distrugge nella seconda parte gli ottimi spunti iniziali, di Dupieux, che con il suo confuso Reality ★★☆☆☆ non riesce a eguagliare la follia del suo Rubber e di James Franco che, dopo il Corman McCarthy di Child of God, si confronta con il Faulkner di The Sound Of The Fury ★★☆☆☆ avendo ben in mente la lezione registica di The Tree of Life: il risultato è ovviamente ben distante dal capolavoro di Terrence Malick.

ITALIA DI GENERE

Un caso più unico che raro riguarda le pellicole italiane: negli anni, siamo sempre stati abituati a visionare (soprattutto all’interno del concorso) prodotti nostrani a dir poco imbarazzanti e disastrosi (dallo scult di Placido Ovunque sei a L’ora di punta di Marra, fino ai più recenti Quando la notte di Cristina Comencini e L’intrepido di Amelio).

Quest’anno, fatta eccezione per La vita oscena di Renato De Maria, non vi è stata traccia di attacchi o fischi nei confronti di un film italico, in virtù dell’ottima riuscita delle nostre pellicole, ad alto tasso noir e thriller: e anche se Perez ★★½☆☆ di De Angelis e (ancor più) Arance e martello ★½☆☆☆ di Bianchi non hanno convinto del tutto, è indubbia l’alta qualità delle tre pellicole in concorso, a partire dal Costanzo di Hungry Hearts ★★★★☆: se i toni da film gotico-horror-giallo utilizzati in La solitudine dei numeri primi non avevano molto convinto, in questa occasione appaiono al contrario perfettamente azzeccati e funzionali, al servizio di una storia in cui gli echi del Polanski di Rosemary’s Baby e de L’inquilino del terzo piano appaiono risuonare continuamente nel piccolo appartamento della disturbante coppia composta dagli eccellenanime nereti Adam Driver e Alba Rohrwacher (meritate Coppe Volpi). Il nuovo cinema gotico italiano potrebbe ripartire proprio da qui.

Eccellenti inoltre sono parse le glaciali Anime nere ★★★½☆ di Munzi; un pò meno il Leopardi di Il giovane favoloso di Martone ★★★☆☆, a tratti estenuante, ma capace di toccare più e più volte vertici davvero alti e insoliti per il cinema italiano (in particolar modo per quel che riguarda la regia). Senza dimenticare poi i curiosissimi e folli “documentari” realizzati da personaggi nostrani scomodi quali Maresco (Belluscone – Una storia siciliana) ★★★½☆ e la Guzzanti (La trattativa) ★★★☆☆, o i drammi familari post-Il capitale umano di De Matteo (I nostri ragazzi) ★★★☆☆ e i thriller di puro genere di Alhaique (Senza nessuna pietà) ★★★☆☆.

GRADITI RITORNI E CONFERME

La 71 esima edizione ha inoltre accolto graditi ritorni di registi che sembravano aver perso la strada maestra, o che comunque si riteneva che non avessero più molto da aggiungere. Con la (quasi) stessa forza travolgente del Friedkin di Killer Joe ecco quindi arrivare Peter Bogdanovich con il suo brillante e corale She’s Funny That Way ★★★★☆, un incredibile punto di congiunzione tra Ma papà ti manda sola, Lubitch, Allen e i cinepanettoni nostrani. Lo stesso per il mitico Joe Dante che con Burying The Ex ★★★½☆ ritorna in forma smagliante all’insegna del suo inimitabile gusto citazionistico e cinefilo per l’horror e i film di genere (italiani in primis).

Anche Mohsen Makhmalbaf gode di perfetta salute con il suo The President, ★★★½☆, ricordandoci come la cinematografia iraniana, oggi ancora fermamente alla ribalta (pensiamo alle opere di Farhadi), rimanga una delle più importanti e affascinanti di sempre. Restando in Persia è giusto ricordare anche la presenza della sentita e fluviale intervista ad Arthur Penn realizzata dall’immenso Amir Naderi con Mise en scène with Arthur Penn ★★★★☆, ma anche del film in concorso Tales ★★☆☆☆ di Rakhshan Banietemad, forse la pellicola più sopravvalutata del festival (insieme a Sivas ★½☆☆☆ di Müjdeci): denunciare una Birdmandeterminata tensione sociale realizzando un piano sequenza di un quarto d’ora con una finta telecamera a mano non è sinonimo di forza e modernità: per queste bisogna rivolgersi (sebbene in un ambito completamente diverso) a Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) ★★★★☆: dopo il discusso Biutiful, Iñárritu firma il suo film più folle e coraggioso, distaccandosi nettamente dalle atmosfere a cui ci aveva abituati. Virtuosismi visivi portati quasi all’eccesso (che sia una prerogativa dei cineasti messicani, vedi Cuaron?) e audaci sperimentazioni sonore (una soundtrack affidata quasi esclusivamente a un assolo di batteria), fanno (letteralmente) volare alto la pellicola capitanata da un redivivo e straordinario Michael Keaton.

E che dire di Nobi (Fires On The Plain) ★★★★☆ di Shinya Tsukamoto? Habitué (per nostra fortuna) della kermesse veneziana, il regista giapponese scappa dalle sue fide metropoli colme di omicidi (Nightmare Detective), psicopatici (Kotoko) e lamiere (Tetsuo), sprofondando in una terrificante giungla selvaggia, sconvolta dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Un viaggio all’inferno spaventoso e esaltante, assurdo punto di congiunzione tra Apocalypse Now e Cannibal Holocaust. Senza alcun dubbio, è sua la miglior regia vista quest’anno in concorso (e quindi, il vero Leone d’argento). Il premio al Kon?alovskij di The Postman’s White Nights ★★½☆☆, alle prese con la vita di provincia di un piccolo villaggio, è apparso infatti un semplice pretesto per premiare la carriera di un cineasta molto amato in passato, ma nulla più.

Certamente non si può dire lo stesso per il vincitore del Leone d’oro A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence ★★★☆☆ di Andersson, un folle collage di situazioni surreali e grottesche che a tratti esaltano e divertono irresistibilmente (la scena nella taverna è in assoluto la più cult di tutto il festival). Il gioco perde però tutta la sua forza dirompente dopo poco meno di mezzora confermandoci come il vero vincitore dovesse essere in realtà il crA Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existenceudo e agghiacciante The Look Of Silence ★★★★☆ di Oppenheimer. Nel concorso si confermano ottimi i nuovi lavori di Bahrani (99 Homes) ★★★½☆ e di Oelhoffen (Loin Des Hommes) ★★★☆☆, interpretati rispettivamente dai soliti grandi Michael Shannon e Viggo Mortensen, Le Dernier Coup de marteau ★★★½☆ di Delaporte (la regista dell’apprezzato Angèle e Tony), e Red Amnesia ★★★½☆ di Xiaoshuai, splendido dramma che è andato a dar man forte a un oriente quest’anno non troppo in forma. E non dimentichiamoci inoltre della miniserie televisiva Olive Kitteridge ★★★½☆: ma certamente, vista la produzione (HBO) e i protagonisti (Frances McDormand e Richard Jenkins) l’esito del risultato era già scritto.

Buoni Retour A Ithaque ★★★☆☆ di Cantet (soprattutto nella parte finale) e il dittico di Lars Von Trier Nymphomaniac Part I e II ★★★☆☆ presentato in versione integrale di cinque ore e mezza (prima parte migliore, a discapito della seconda dove la carica eversiva del cineasta danese perde forza). Da segnalare poi, l’alto livello raggiunto quest’anno dalla sezione Orizzonti, con pellicole quali Theeb ★★★½☆ di Naji Abu Nowar (la scena nel pozzo a dir poco esaltante), These Are The Rules ★★★☆☆ di Svili?i? (tragico e glaciale), Jackie & Ryan ★★★☆☆ di Ami Canaan Mann (la figlia di Michael Mann che compie passi da gigante rispetto all’imbarazzante Le paludi della morte), Court ★★★☆☆ di Tamhane (che ha vinto la sezione) e Heavens Knows What ★★★☆☆ di Josh e Ben Safdie (con echi di Araki, Van Sant e Christiane F.)

GRADITE SCOPERTE

Ma ciò che rende davvero speciale un festival cinematografico sono le sorprese inaspettate che gli spettatori si trovano a visionare durante lo svolgimento della manifestazione: se l’anno precedente fu la volta di film come Miss Violence, Locke o Tom à la ferme, quest’anno a farla da padrone è stata in primis l’Austria, con la figura di Ulrich Seidl: è suo infatti lo straordinario documentario In The Basement ★★★★☆, viaggio nelle cantine austriache dominate da direttori di banda nazisti, masochisti schiavi sessuali e aspiranti cantanti lirici amanti delle armi: uno sprofondamento nelle menti di questi inquietanti personaggi, ma sempre all’insegna di un gusto per l’assurdo e per l’ironico a cui il regista ci aveva precedente deliziato a Venezia con il secondo capitolo della sua trilogia Paradise. Ritroviamo inoltre Seidl nelle veste di produttore dell’esordio alla regia della moglie Veronika Franz in coppia con Severin Fiala: Ich seh ich seh (Goodnight Mommy) ★★★★☆ è un elegante e disturbante horror sul rapporto tra due gemelli e la propria madre, con personali richiami nell’ambientazione e nelle scene più violente all’ Haneke di Funny Games e all’Alfredson di Lasciami entrare.

Ma anche l’oriente ci ha riservato due gradite sorprese: Quin’ai de (Dearest) ★★★½☆ di Peter Ho-Su Chan, dramma sui rapimenti dei bambini in Cina, apparentemente sopra alle righe, ma in realtà davvero autentico e sentito, e soprattutto il coreano Hwajang (Revivre) ★★★★☆ di Im Kwon-taek (il regista di Ebbro di donne e di pittura), altra tragedia familiare che trabocca di quotidianità e sentimentalismi, ma del tutto privati di qualsiasi eccesso o ridondanza, quasi come un Departures ancora più sofferto.Nabat_AFF_Final.indd

Dalle Giornate degli autori arriva invece il brillante esordio alla regia di Shawn Christensen, già vincitore di un Oscar nel 2012 con un cortometraggio: Before I Disappear ★★★★☆ prende spunto proprio dal corto precedente (Curfew) riuscendo a costruire una dark comedy in continuo bilico tra dramma e commedia, tra suicidi tentati e riusciti, droghe e libri scolastici, con inaspettate concessioni al musical. Giovane e maturo allo stesso tempo.

Ma il film che più di tutti ha esaltato è stato senza ombra di dubbio Nabat ★★★★½ di Elçin Musaoglu, proveniente dalla Azerbaigian e presentato nella sezione Orizzonti. I pochi spettatori rimasti al Lido (è stato infatti proiettato il penultimo giorno) si sono ritrovati catapultati in un piccolo villaggio sconvolto dalla guerra, che viene lentamente abbandonato da tutti i propri abitanti, fatta eccezione per una donna e per il proprio marito moribondo. La protagonista tenta di tenere in vita la quotidianità della cittadina, compiendo ogni giorno, sempre uguali a se stesse, piccole azioni come il ritirare i panni o accendere le candele, immersa inesorabilmente nella miseria e nella disperazione. Un tempo e un luogo fermi, statici, ritualizzati, tragici. Il vero (e forse unico) capolavoro del festival.

Recensioni a cura di Federico Forleo

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