Velvet Buzzsaw, Scritto e diretto da Dan Gilroy. Con Jake Gyllenhaal, John Malkovich, Rene Russo, Toni Collette. Produzione: USA, 2019. Durata: 112’.
Josephina (Zawe Ashton), agente di una galleria d’arte, entra in possesso di una moltitudine di dipinti inquietanti appartenuti a un suo vicino di casa, un anziano uomo deceduto nella più totale solitudine e indifferenza. Sempre più ammaliata dalle tele e non tenendo conto delle istruzioni lasciate dall’uomo, ovvero quelle di distruggere ogni singolo dipinto, Josephina inizia a far circolare ciò che ha trovato, destando l’attenzione di critici e colleghi come Morf Vandelwalt (Jake Gyllenhaal), Gretchen (Toni Collette), Rhodora Haze (Rene Russo) e Jon Dondon (Tom Sturridge). Le uniche persone a rimanere immuni al sinistro fascino dei dipinti sono l’artista Piers (John Malkovich) e l’assistente Coco (Natalia Dyer). Difatti, tutte le persone che entrano in contatto con le misteriose opere, iniziano a morire una dietro l’altra.
Quasi cinque anni fa lo sceneggiatore Dan Gilroy ha avuto il suo battesimo del fuoco come regista con l’immenso e magistrale thriller metropolitano Lo sciacallo – Nightcrawler, opera prima interessante quanto imperdibile per l’ottimo lavoro svolto. All’enorme successo è seguito il non proprio convincente e piuttosto mediocre legal thriller End of Justice – Nessuno è innocente. E ora, a distanza di quasi un anno dall’uscita di quest’ultimo, Gilroy è tornato con Velvet Buzzsaw (2019) opera terza del suo percorso registico passata nell’ultima edizione del Sundance Film Festival e da qualche giorno disponibile sulla piattaforma streaming di Netflix. Nonostante la presenza nel più prestigioso festival del cinema indipendente e tutta la buona volontà possibile il nuovo lavoro di Gilroy, dietro l’apparentemente originale plot, nasconde tutta una serie di gravi difetti che – purtroppo – lo rendono un prodotto inferiore rispetto ai suoi titoli precedenti (peggiore di End of Justice, lontano anni luce da Nightcrawler).
Il primo, grande e fondamentale difetto di questo Velvet Buzzsaw risiede proprio nell’essere quello che non è: dovrebbe (e vorrebbe) essere un horror ma non lo è, così come non è possibile catalogarlo nel genere del thriller. Semmai Velvet Buzzsaw rientra nei canoni della black comedy grottesca e satirica contaminata da elementi filmici appartenenti al sottogenere della ghost story. Ciò nonostante la terza prova di regia di Gilroy funziona solo ed esclusivamente come critica all’elitario e spietato mondo dell’arte, in cui non ci sono regole ma – piuttosto – nevrosi, doppi giochi, concorrenza, cinismo e un’immensa voglia di distruggere il prossimo. Quello “dipinto” (usando un gioco di parole e, così, rimanendo in tema) in Velvet Buzzsaw è un universo in cui artisti si nasce (e si muore) non per mano altrui bensì per una inspiegabile forza paranormale (come altro definirla?) scatenata dai demoniaci, inquietanti, nichilisti e apocalittici dipinti di un anziano uomo il cui passato affonda in storie di disturbi mentali e violenza.
E non è neanche di aiuto la sceneggiatura che, in maniera striminzita, cerca di dare risposte agli interrogativi generati da tutto quello che accade nel minutaggio del film: a non funzionare principalmente in Velvet Buzzsaw è il whodunit di tanta letteratura e tanto cinema di genere giallo che, in questo contesto, si può benissimo riassumere così: accadono cose strane, alcune persone muoiono, fine. Inutile negare che l’intreccio narrativo del terzo film di Gilroy è pieno di lacune che, di certo, non aiutano l’indefinibile melting pot che è Velvet Buzzsaw, un prodotto che sembra piuttosto pensato per le produzioni televisive (e la qualità scenotecnica, infatti, lo dimostra scatenando più di una risata davanti a una certa effettistica di basso livello) e per gli amanti dei b-movie privi di mordente e ritmo. Non c’è la minima traccia di tensione né ti orrore visivo: Gilroy butta lì due scene splatter en passant, zero jump scare e un non tanto velato riferimento al Pupi Avati di La casa dalle finestre che ridono e al Dario Argento di Profondo rosso ma tutto ciò non basta a salvare in extremis un film di una bruttezza e ridicolezza disarmante. L’unica nota positiva, in questo mare magnum di trash (in)volontario di un’opera che in brevissimo tempo si fa dimenticare, rimane la piacevole interpretazione di Jake Gyllenhaal (di certo non formidabile come quelle nel già citato Lo sciacallo o nel più recente Stronger) e quella caustica del veterano John Malkovich, quest’ultimo anche visto di recente nell’horror sci-fi Bird Box.
recensione di Francesco Grano