Qualche giorno a Venezia: full immersion nella 75° edizione della Mostra Internazionale d’arte cinematografica.
Durata dal 5 all’8 settembre.
Quest’anno, sempre in compagnia del giocoso manipolo di cinéphiles ho replicato la mia avventura al Festival, che è cominciata con un pomeriggio nella sala Perla, dove in programma è previsto, all’interno della sezione Giornate degli Autori – selezione ufficiale: “Mafak - Screwdriver” di Bassam Jarbawi (produzione Palestina, Usa, Qatar) ambientato e girato in Cisgiordania. La storia è quella di Ziad, palestinese quarantenne che esce oggi dal carcere, acclamato come eroe della resistenza, dopo aver scontato lunghi anni di detenzione per una vicenda risalente alla sua adolescenza, che rappresenterà un elemento cardine della narrazione, rievocato con il ripetuto ricorso al flash-back. Il protagonista è disorientato dal tùrbine dei festeggiamenti per la sua liberazione, disadattato rispetto al rientro nella vita della pur accogliente famiglia, minato nella salute dalle torture subite in prigionia. Il regista/sceneggiatore e l’attore protagonista, Ziad Bakri, riescono in maniera asciutta e rigorosa a dare vita ad un personaggio tormentato ma convincente nella ricerca di un difficile nuovo equilibrio, nel drammatico confronto con una realtà che per molti versi non riesce a comprendere. Sono efficaci e riuscite le scene girate nei tortuosi vicoli del quartiere in cui abita, e poetica soprattutto un’immagine in cui il protagonista è circondato dalle opere di un giovane street-artist, i cui murales diventano atto di ribellione alle brutture, anche fisiche, che sfregiano il villaggio. Di fatto, pur avendo segnato così duramente il protagonista, il carcere non viene rappresentato, ma è comunque una presenza costante per Ziad, e metafora della condizione di vita del popolo palestinese, come riferito dallo stesso regista, nel corso dell’intervista rilasciata al termine della proiezione.
In serata ci si sposta in sala Giardino, per assistere nella sezione Sconfini, ad “Arrivederci Saigon” di Wilma Labate (produzione Italia) . Il documentario, sezione Sconfini, ci porta nei dintorni operai di Livorno, Piombino e Pontedera per rispolverare la storia di una band femminile, “Le Stars”, composta da ragazze adolescenti che in pieno ‘68 sull’onda dei primi successi ottenuti nei locali toscani, viene inaspettatamente ingaggiata per una tournée di qualche mese in estremo oriente. Le 5 giovani musiciste lasciano l’Italia, tra entusiasmi, speranze e qualche timore, convinte dall’impresario, poi rivelatosi piuttosto spregiudicato: i luoghi del tour saranno infatti le basi militari americane in territorio vietnamita. La regista, lasciando parlare quattro delle protagoniste di allora, riesce a comporre con grande efficacia e sensibilità la storia di quella incredibile tournée e del contrastato rientro a casa, attraverso i racconti carichi di emozione, i ricordi di un’avventura drammatica che ha profondamente segnato la vita di quelle ragazze. I ritratti che pian piano emergono sono pieni di umanità, tanta ironia, e soprattutto commozione, che dilaga al termine della proiezione, quando regista e protagoniste raccolgono gli applausi di un pubblico molto coinvolto e partecipe e, quasi incredule, salgono sul palco per l’intervista. Abbiamo saputo che non esiste materiale di repertorio, e quindi quell’esperienza rivive nell’appassionato amarcord di queste donne, che la Labate ha saputo riportare dalle atmosfere del ’68 livornese, alle trincee di quell’assurda guerra lontana.
Il primo giorno si conclude con la visione in sala Grande – Fuori Concorso – di “Les Etivants” di Valeria Bruni Tedeschi (produzione Francia) . Il film ripropone lo schema del racconto corale, ambientato in una grande e ormai decadente villa in Costa Azzurra, che diventa il palcoscenico delle vicende della strampalata famiglia della protagonista interpretata dalla stessa regista, che è anche co-sceneggiatrice. A mio parere i tratti autobiografici e gli appassionati, nevrotici ed anche divertenti “assoli” della Bruni Tedeschi non riescono più di tanto a dare coerenza ad un film lungo, ma non coinvolgente, nonostante la presenza di attori, tra i quali Valeria Golino, Riccardo Scamarcio, Pierre Arditi, Bruno Raffaelli. Mi sembra si fatichi a trovare elementi di originalità nei cinici dialoghi tra parenti, riuniti intorno al tavolo per il pranzo della festa: forse abbiamo già visto riproposte con maggior efficacia in altre pellicole queste feroci dinamiche familiari. Mi ha lasciato infine perplessa l’immagine che lo sguardo dell’autrice ci propone della donna di mezza età, incastrata in cliché che non trovo condivisibili.
La mattinata seguente inizia al Palabiennale, per la sezione Orizzonti Concorso, con “Un giorno all’improvviso” (prod. Italia) di Ciro D’Emilio, che è anche co-sceneggiatore. . Il regista segue con movimenti di macchina febbrili Antonio, sedicenne della provincia campana, che non frequenta più la scuola e divide il suo tempo tra lavoretti precari, allenamenti di calcio nella promettente squadra di un paese campano, serate con gli amici e la cura amorosa della giovane e fragile madre, interpretata da una intensa ed inquieta Anna Foglietta. Giampiero De Concilio, alla prima prova da protagonista, è veramente coinvolgente, ha uno sguardo che riesce a trasmettere la rabbia nei confronti del padre, che lo ha rinnegato alla nascita, e la dolcezza di figlio responsabile nei confronti della madre, che non regge l’idea dell’abbandono e deve far ricorso ai farmaci, per poter mantenere un effimero equilibrio. In questo contesto duro, Antonio riesce con grande determinazione a nutrire le sue aspirazioni di giovane calciatore, su cui mette gli occhi un importante talent scout. Quale miglior attore, Giampiero De Concilio ha ricevuto il premio “Nuovoimaie Talent Award”, assegnato dall’Istituto Mutualistico Artisti Interpreti ed Esecutori per riaffermare e valorizzare il lavoro dell’attore.
A seguire il programma prevede in sala Grande – in concorso – “Capri-Revolution” (prod. Italia, Francia) , il nuovo film di Mario Martone, che ne firma anche la sceneggiatura, con Ippolita di Majo. La trama è molto interessante, perché fonde in modo originale vicende nella realtà accadute in periodi storici diversi, con l’obiettivo di indagare in termini filosofici e scientifici il tema del dibattuto rapporto tra progresso, uomo e natura. Siamo nell’ isola di Capri ai primi del ‘900: la giovanissima capraia, interpretata da una lodevole Marianna Fontana, nelle lunghe e solitarie giornate trascorse al pascolo si trova a confrontarsi, prima con diffidenza e poi con sempre maggior coinvolgimento, con lo stile di vita decisamente anticonformista ed anarchico di una comunità di stranieri, guidata dal carismatico pittore inglese Seybu. L’efficace fotografia, la suggestione evocata dalle danze di gruppo che celebrano il tramonto sul mare o la notte illuminata dalla fioca luce dei fuochi nei boschi, le poetiche riprese delle grotte a strapiombo sul mare fanno da cornice naturale al vivace dibattito che si sviluppa tra l’artista inglese, che con i suoi comportamenti anticonvenzionali desta scandalo nella piccola e tradizionalista realtà isolana, ed il giovane medico condotto del villaggio, idealista ed entusiasta sostenitore del progresso scientifico. Nella figura dell’affascinante Seybu si ritrovano i tratti del pittore, naturista e teosofo Karl Diefenbach, che si trasferì nel 1900 a Capri fonte di inesauribile ispirazione, e quelli di Joseph Beuys artista tedesco morto nel 1986, esponente dell’arte concettuale, artista-sciamano ed ecologista, e ancora quelli dei fondatori della comunità del Monte Verità, nei presi di Ascona in Svizzera, dove intorno ai primi anni del ‘900 si ritrovarono i riformisti, in cerca di una vita alternativa all’insegna del naturismo e della spiritualità.
L’indomani il Palabiennale propone – Fuori Concorso – “Un peuple et son Roi – One nation one King” di Pierre Schoeller (prod. Francia, Belgio) . Siamo a Parigi, nei giorni della presa della Bastiglia, quando nei vicoli a ridosso dell’imponente fortezza torna a risplendere il sole, dopo la demolizione dei merli degli alti torrioni. Il film alterna le drammatiche vicende di un gruppo di popolani e attivisti sostenitori dei nuovi valori rivoluzionari, e la fedele ricostruzione degli anni delle prime sedute dell’Assemblea nazionale, i cui rappresentanti sono alle prese con la scrittura di quella che diventerà la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, e che conducono poi alla decapitazione di Luigi XVI. Sono anni cruciali per la storia di Francia e della democrazia, ed il progetto del regista è sicuramente molto ambizioso, realizzato soprattutto con grande attenzione ai costumi ed alle scene di piazza. Probabilmente la scelta di seguire due registri, quello narrativo tipico della fiction che segue le storie degli entusiasti militanti, e quello più vicino allo stile documentaristico, dedicato alle sedute assembleari con i relativi dibattiti, scontri tra opposte fazioni e votazioni, disorienta un po’ lo spettatore, che a mio avviso non riesce a restare coinvolto per tutti i 121 minuti di proiezione. Una curiosità che riguarda il ricco cast: l’agguerrito “Amico del popolo”, Marat, è interpretato da Denis Lavant, volto che ha già caratterizzato “Rosso sangue”, “Gli amanti di Pont Neuf”, “Holy motors” di Leos Carax.
A seguire, per Orizzonti Concorso, c’è “Soni” di Ivan Ayr (prod. India) . Siamo a Nuova Delhi e la protagonista, Soni, è un’ispettrice di polizia, dai metodi bruschi e pronta a reagire con le maniere forti alle situazioni in cui prepotenza e prevaricazione vorrebbero vederla succube e sottomessa. Sebbene le intenzioni di Soni siano condivisibili, i metodi sbrigativi che adotta la espongono a ripetute critiche e richiami da parte dei suoi superiori, soprattutto quando a fare le spese delle intemperanze della giovane ispettrice sono personaggi legati a potenti esponenti politici. Nella controversa realtà dell’India, per alcuni versi legata ancora a forti tradizioni e ad una rigida divisione dei ruoli tra uomo e donna, Soni cerca l’affermazione della giustizia senza compromessi, e forse anche il tentativo di riscatto da vicende personali che l’hanno segnata profondamente. In questo drammatico contesto assume un ruolo fondamentale la complicità che si crea tra Soni e la sua responsabile, la sovrintendente Kalpana, combattuta tra il senso del rispetto del regolamento ed una sincera comprensione del disagio della collega. Le due attrici, Geetika Vidya Ohlyan e Saloni Batra sono convincenti ed appassionate, e danno vita con coerenza ai personaggi che si muovono in una città che il regista inquadra con atmosfere cupe e contrastate.
Per la sezione Orizzonti Concorso si prosegue in sala Darsena con “Kraben Rahu (Manta Ray)” di Phuttiphong Aroonpheng (prod. Thailandia) , che ci propone la storia intrigante di un pescatore di un villaggio della costa thailandese che è solito aggirarsi alla ricerca di pietre nell’intricata foresta costiera, e un giorno si imbatte nel corpo privo di sensi di un uomo ferito. Il pescatore si prende cura dello sconosciuto, lo accudisce nel corso della delicata convalescenza, ospitandolo in casa. Non c’è alcun dialogo tra i due, il ferito infatti non proferisce verbo, ma man mano che riacquista le forze comincia a diventare l’ombra del suo amico, fino a sostituirlo addirittura, quando misteriosamente il pescatore esce di scena. Il film è dichiaratamente dedicato alle dolorose vicende che affliggono il popolo Rohingya, anche se lo stesso regista, al termine della proiezione, riferisce di non potersi definire come un paladino dei diritti civili, ma di sentirsi piuttosto un artista cui è capitato di interessarsi alla storia del popolo Rohingya, da cui il film poi prende ispirazione. Confesso che però ho trovato slegato l’interessante impianto narrativo, rispetto ad alcune scene ricorrenti, che pur presentando elementi di suggestione per il modo in cui è utilizzata la luce, restano però isolate rispetto al resto del film, e direi irrisolte nel loro alone di mistero. Lo stesso regista, nel rispondere ad una specifica domanda in proposito, ha precisato che l’enigmatica scena ricorrente, in realtà non andrebbe intesa come funzionale alla narrazione, ma piuttosto immaginata come un’istallazione artistica, frutto di un’ispirazione avuta pochi giorni prima dell’inizio del film. Effettivamente il regista, al suo esordio nella categoria lungometraggi, si è formato alla scuola di belle arti e ha avuto diverse esperienze come direttore della fotografia. Sappiamo poi che nella sezione Orizzonti questa pellicola ha vinto il premio come miglior film.
La serata si conclude in sala Grande con il film – Fuori concorso – “Una storia senza nome” di Roberto Andò (prod. Italia, Francia) . Il soggetto avrebbe potuto essere originale, in quanto prende spunto dalla vicenda del dipinto del Caravaggio, rubato dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo e scomparso poi in situazioni mai più chiarite. Lo sviluppo dell’ispirazione resta secondo me privo di originalità, e nonostante la presenza di attori di richiamo, tra gli altri Michaela Ramazzotti, Renato Carpentieri, Laura Morante, Alessandro Gassmann, il film rimane al livello di prodotto destinato al piccolo schermo.
Reportage di: DiDo