Tomboy, regia di Céline Sciamma. Con Zoé Héran, Jeanne Disson, Sophie Cattani, Mathieu Demy, Ryan Boubekri, Yohan Véro, Noah Véro, Cheyenne Lainé
Durata 84 min. – Francia 2011
Equivalente in lingua inglese del nostro “maschiaccio”, Tomboy è il secondo lungometraggio della giovane regista francese Céline Sciamma, presentato al festival di Berlino e vincitore del Teddy Award, nonché dei premi del pubblico e della giuria al 26° Torino GLBT Film Festival. È la storia di Laure (la bravissima Zoé Héran), una ragazzina di dieci anni che si trova ad affrontare l’ennesimo trasloco con la sua famiglia medio borghese composta da padre, madre in dolce attesa e sorellina. Gli atteggiamenti e la fisicità androgina di Laure fanno si che una bambina del nuovo condominio, Lisa, al loro primo incontro la scambi per un bambino mentre Laure, in una sorta di gioco innocente, non svela la sua identità. Al contario si cala in quella di Mickael, fingendosi a tutti gli effetti un ragazzino e inserendosi alla perfezione nel gruppo di coetanei del quartiere, prevalentemente maschi, dai quali viene immediatamente accettato grazie alla sua naturale abilità espressa nel calcio e nella lotta. Ho usato volutamente il maschile perché durante lo svolgimento del film Laure diventa a tutti gli effetti Mickael, rompendo quell’esile barriera dell’identità sessuale che esiste nella pre adolescenza e assecondando invece la sua indole. La trasformazione avviene così, per gioco, senza dover necessariamente ricercare una chiave di lettura al comportamento di Laure nella peraltro perfetta famiglia: due genitori entrambi molto aperti e comprensivi e l’ottimo rapporto di complicità con la dolcissima sorellina Jeanne, fugano ogni dubbio in questo senso. Ma la situazione si fa complessa poichè Laure, pur consapevole che il gioco dovrà finire, si trova sempre più prigioniera nell’identità di Mickael sapendo che è ormai impossibile scoprire le carte in tavola senza essere messa all’indice dal gruppo e soprattutto senza ferire i sentimenti di Lisa, la quale prova per Mickael un abbozzo di innocente sentimento, peraltro ricambiato. La trama non mi permette di svelare oltre, onde non rovinare quel pathos, mix perfetto di delicatezza e suspence su cui si regge tutto l’impianto del film.
Girato con un budget minimo ed in appena tre settimane, stesso numero di quelle usate per la stesura del soggetto, questo gioiellino apre una finestra sul meraviglioso mondo dell’infanzia e sul modo unico e innocente di relazionarsi con gli altri e con sé stessi.
Sebbene il tema trattato, seppur in ben altri contesti e con altre finalità, possa erroneamente rimandare all’identità negata della Teena Brandon (Hillary Swank) di Boys Don’t Cry del 1999, è importante sottolineare come la diversità di vedute da prospettive generazionali differenti portino a conclusioni diametralmente opposte. Dal tragico epilogo nel primo film, la Sciamma prende le distanze spaziando con la sua steadycam con grazia e delicatezza, proprie di questa fase della vita, affrontando un problema e risolvendolo come solo l’apertura mentale dei bambini può fare.
recensione di Claudia Giacinti