Ott 182011
 

This must be the place, regia di Paolo Sorrentino. Con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Harry Dean Stanton, Judd Hirsch, Joyce Van Patten. Italia, Francia, Irlanda 2011. Durata 118 minuti

★★★★½

Cammina leggero nonostante i pesanti stivali neri che gli fasciano le gambe. Il passo è incerto ed è sempre sostenuto da un carrello della spesa o da un trolley. Fa temere che un soffio di vento lo possa portare via come lo sbuffo che Cheyenne (Sean Penn) fa ogni volta che un ciuffo dei suoi lunghi capelli tinti di nero gli cade sugli occhi. La rockstar dal passato “dark” che si strucca assieme alla moglie Jean (FrancesMcDormand) che gli sta accanto da 35 anni, è un personaggio che non si potrà dimenticare, come un “Grande Lebowsky” gothic punk dai modi delicati ed infantili, dalle battute fulminanti, dagli occhi malinconici e dolci. Il film segue i passi leggeri di Cheyenne che vive in Irlanda, in una villa con interni minimalisti e geometricamente perfetti. Passa le sue giornate al centro commerciale con la sua giovane amica Mary (EveHewson), triste per l’adolescenza e per la sparizione del fratello Tony. Gioca a Pelota con la moglie in una piscina vuota. Si confessa depresso e pieno di paure, compresa quella di volare. Quando riceve la notizia che suo padre sta morendo e deve partire per l’America, prenderà la nave, allungando il viaggio per arrivare a trapasso avvenuto, non interrompendo così il silenzio che li separava da trent’anni. Tra le cose chegli vengono consegnate dopo il funerale ci sono dei diari dove il padre ha raccontato con parole e disegni, la ricerca dell’ufficiale tedesco che è stato il suo aguzzino nel campo di concentramento dove era detenuto. Con quei diari nella mente ascolta in un locale di New York, “This must be the place” cantata dal suo amico David Byrne che interpreta se stesso. Cheyenne si raffronta con lui in un breve dialogo che secerne il dolore per la sua esistenza, l’essere stato la causa indiretta del suicidio di due adolescenti che hanno preso alla lettera certi suoi testi e la convinzione di non essere mai stato amato dal padre. “Home is where I want to be”, recita come primo verso la canzone di David Byrne e Cheyenne parte con il suo trolley nero ed un pick up di lusso di un broker conosciuto in un ristorante, attraverso l’America dei grandi spazi, delle sculture pubblicitarie post moderne di pistacchi e bottiglie di whisky. “Did I find you or you find me?”, Cheyenne ancora non lo sa e Sorrentino lo accompagna nel viaggio con le immagini di un America iconografica che evoca gli scenari e la luce di Edward Hopper e le fotografie a lui ispirate di Gregory Crewdson. Incontra Rachel, la nipote del criminale nazista, una ragazza spaventata dalla vita con un figlio (Tommy) con problemi di peso e terrorizzato dall’acqua. “Never for money, always for love”, l’amore di Tommy per il padre che rende presente con una sua foto in uniforme che Tommy porta in giro per casa e che lascia intuire che, probabilmente, sia caduto in Iraq. Tommy, nella sua spontaneità riesce a far suonare la chitarra a Cheyenne dopo vent’anni, a discutere con lui se “This must be the place” sia degli Arcade Fire o dei Talking Heads. Nella piscina che Cheyenne ha comprato per loro, Tommy riuscirà a superare la paura dell’acqua. Cheyenne, che ha capito che almeno una paura nella vita si deve superare, con questo viaggio attraverso l’America ed i ricordi del padre ha deciso di liberarsi della paura di crescere. Ci riuscirà in un finale che lascia il segno, sia come stile che come contenuto. In uno spazio infinito, coperto di neve, Cheyenne lascia dietro di sé i propri demoni di Peter Pan post-punk e torna a casa perché quello deve essere il suo posto. Sorrentino dimostra in questo film di aver raggiunto una notevole maturità artistica. Ha utilizzato con grande equilibrio l’ironia, perché in questo film si ride, e toni surreali senza ridicolizzare i contenuti grazie soprattutto all’interpretazione di Sean Penn che vale tutto il film.

Recensione di Ingrid

  3 Responses to “This must be the place”

  1. Concordo con la recensione. Anche a me è piaciuto il film. A dire il vero, non è facilissimo, seguire il filo della trama, ma presto ogni personaggio assume un suo preciso e indispensabile ruolo nello svolgimento della storia. C’è un giusto mix di poesia e ironia.
    Per gente come me, per la quale i Talking Heads erano un culto, è un vero godimento.

  2. A mio parere il film è molto affascinante ed accattivante, ma non rappresenta la maturità artistica di Sorrentino. A parte la straordinaria performance di Sean Penn, che da sola vale il film, manca la visionarietà, l’inquietudine e l’invenzione psichedelica propria di un film come “Il Divo”; esso, poi, appare troppo solare per il tema che vuole rappresentare, ed il percorso interiore di una “Gothic Star” in crisi, che ritrova nel viaggio alla ricerca del padre e sopratutto di sè stesso le ragioni della sua redenzione, appare abbastanza involuto e semplicistico. Sembra quasi che il punto di approdo, dopo la bellissima decisione di rinunciare alla vendetta, sia tagliarsi i capelli e dismettere la divisa “dark”, per rientrare nella “normalità”. L’autoflagellazione compiuta nello splendido colloquio con Byrne è eccessiva, e l’ex leader dei Talking Heads non manca di sottolinearlo, affermando che anche quella di Cheyenne era creazione artistica, e non solo speculazione commerciale. Le musiche sono comunque splendide, ma il ricordo di road movies come “True Stories” e il wendersiano “Paris Texas” nuocciono al film. Siamo propensi a ritenere che Sorrentino, in questo film “americano” abbia avuto in mente anche la nomination all’Oscar.

    Dark Rider

  3. Penso sia il film pù bello che ho visto quest’anno è surreale e divertente anche se commuove. Non so se rappresenta o no la maturità artistica di Sorrentino, io mentre lo guardavo pensavo che mente incredibilmente artistica e originale possiede. Riuscire a costruire un film così poetico. Un film da dieci e lode, questo è il cinema secondo me.

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