Lido di Venezia, dal 30 agosto al 3 settembre
Non c’ero mai stata, l’ho sempre seguito “filtrato” da articoli e servizi televisivi. Quest’anno invece, insieme ad un manipolo di amici appassionati e curiosi, sono riuscita a tuffarmi nel fantastico mondo del Festival.
L’atmosfera è elettrizzante: ti precipiti a prendere il vaporetto per assicurarti il pass, la magica chiave che spalancherà le porte delle proiezioni. Allunghi il collo per sbirciare quale star o giovane promessa stia sfilando sul red carpet. Nell’attesa di entrare in sala lo sguardo è divertito, mentre riconosci il noto giornalista, il tal critico. Studi a fondo il programma, consultando il corposo catalogo e decidi, dopo un complicato intreccio di orari, in quali sale trascorrere la maggior parte della tua giornata, in quali racconti perderti……
Ho cominciato con un pomeriggio nella sala Perla, dove in programma è previsto, all’interno della sezione “Giornate degli Autori”: “Carmen” di Chloè Sevigny qui in veste di regista di un divertente corto, che ci regala il ritratto irriverente ed ironico della performer Carmen Lynch alle prese con il tema dello stile di vita dei quarantenni, e “The (end) of history illusion” altro corto per la regia di Celia Rowlson-Hall, che dipinge in modo surreale il perfetto “rifugio sotterraneo quale migliore difesa contro gli effetti della radioattivita?”. A seguire “Eye on Juliet” (prod. Canada) lungometraggio di Kim Nguyen Lo spunto è interessante e, per alcuni versi anche originale: un addetto alla sicurezza, impiegato in una ditta che dal Canada si occupa di sorvegliare un oleodotto attivo in medioriente, con l’impiego delle videocamere installate su piccoli droni, comincerà a seguire da vicino le drammatiche vicende di una ragazza del luogo, arrivando a stabilire con lei un contatto. Se l’incipit è carico di promesse, ho la sensazione che invece nella parte finale del film la narrazione si abbandoni ad un registro più convenzionale ed a soluzioni già viste.
In serata ci si sposta in sala Darsena, per assistere a “Human flow” di Ai Weiwei (prod. Germania) Il documentario, in concorso, dell’artista cinese è monumentale: in 140 minuti scorrono sullo schermo le immagini raccolte al seguito delle masse di migranti che nel mondo fuggono da scenari di fame, guerra, persecuzione politica o razziale. Davanti alle lente sequenze, quasi sempre prive di un commento fuori campo, è impossibile non lasciarsi coinvolgere dalla drammaticità dei volti e dalla violenza delle storie raccontate direttamente dai protagonisti. L’impressione che mi è rimasta è quella di una grande raccolta di immagini, che viene proposta allo spettatore proprio come indica il titolo, attraverso un lento e inesorabile flusso di disperazione. Non sono riuscita però a trovare il personale sguardo del regista: forse troppe volte abbiamo già visto reportage o servizi dei tg che riprendono l’infernale giungla di Calais, o gli angosciosi sbarchi sulle coste italiane, o ancora i relitti che galleggiano tragicamente nelle acque di Lesbo….
La mattinata seguente inizia, per la sezione “Giornate degli Autori”, con “Il contagio” (prod. Italia) di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini Il racconto si sviluppa da una tipica periferia romana di oggi, dove la coppia di protagonisti, interpretati dai tormentati e convincenti Anna Foglietta e Vinicio Marchioni, si trova ad affrontare una crisi del rapporto che li lega da anni, minato da problemi dovuti al lavoro precario, ai pochi soldi in tasca, ed alla latente dipendenza da droga di lui. Questa vicenda familiare si incastra in un contesto in cui i protagonisti interagiscono con altri soggetti, attraverso i quali viene evocata la recente cronaca giudiziaria di Roma-Capitale. Nella prima parte del film ho trovato richiami alle atmosfere condominiali riprese “alla Ozpetek” e nella seconda parte invece si riconosce un registro già anticipato da “Suburra”, e un personaggio, interpretato da Vincenzo Salemme, fin troppo chiaramente ispirato alla figura di Pasolini. In sostanza un’operazione che ha comunque visto all’opera bravi attori, ma non un lavoro che nell’ambiente del Festival possa avere le caratteristiche per lasciare un segno particolare.
Nel primo pomeriggio ci si sposta in sala Grande per la visione, fuori concorso, del documentario “This is Congo” di Daniel McCabe (prod. Usa) Questo lavoro mi ha entusiasmato, perché il regista è riuscito a trattare un tema conosciuto, con uno sguardo decisamente coinvolgente, che ha la forza di trascinare lo spettatore nelle drammatiche vicende del Congo, usando un registro che tenta di svelare le trame più complesse che storicamente impediscono al paese uno sviluppo democratico e pacifico. La tecnica di ripresa è sempre incisiva, non lascia mai il campo a compromessi: la telecamera segue molto da vicino i movimenti dei protagonisti, un giovane comandante dell’esercito regolare congolese sulla scena delle operazioni militari, una madre di famiglia trafficante di pietre, un sarto sfollato, e quello che riprende non ci lascia mai indifferenti.
A seguire il programma prevede “Lean on Pete” (prod. Gran Bretagna) il nuovo film di Andrew Haigh, già apprezzato regista di “45 Years”, che nel 2015 valse ai protagonisti, Charlotte Rampling e Tom Courtenay il premio per la miglior interpretazione al Festival di Berlino. Siamo nella provincia americana, in un anonimo sobborgo dove un giovane e sregolato padre single, e Charly, il taciturno figlio sedicenne, si sono appena trasferiti. Charly, per supportare le magre finanze familiari, trova un lavoro estivo, con il quale entra in contatto con l’ambiente degli allevatori di cavalli e le ciniche dinamiche delle corse dei purosangue. Charly, pur essendo legato allo strampalato padre, è comunque un ragazzo che non ha radici: non ha rapporti con la madre, non vede più da tempo la zia, della quale conserva un ricordo carico di affetto e tenerezza, e non ha amici. Finirà per occuparsi con sempre più dedizione alla cura del cavallo, il cui nome dà il titolo al film, e questo rapporto sarà la chiave attraverso cui farà scelte decisive per la sua vita. Il film mi è piaciuto molto, con semplicità e rigore è riuscito a dare anima ad una storia che, per alcuni versi può ricordare le atmosfere de “Il cavaliere elettrico”, e nella seconda parte diventa un appassionato road movie, che ci avvicina sempre più al personaggio Charly. Il giovane attore scelto quale protagonista, Charlie Plummer, presente in sala insieme al regista ed alla co-protagonista Chloè Sevigny, ha raccolto il sincero e lungo applauso di tutto il pubblico che ha assistito alla proiezione, ed ha poi meritatamente ricevuto il premio “Marcello Mastroianni”, quale giovane attore emergente.
In serata assistiamo all’interessante “Foxtrot” il film in concorso di Samuel Maoz (prod. Israele – Germania -Francia – Svizzera) , già Leone d’Oro per “Lebanon” del 2009. Qui l’ambientazione è prevalentemente teatrale: la parte iniziale del film si svolge all’interno di una casa borghese, e riprende la famiglia Feldmann nel momento in cui apprende la drammatica notizia della morte del giovane figlio Jonathan, arruolato nell’esercito israeliano. La scena si sposta poi al fronte, dove Jonathan presta servizio. Anche qui la narrazione avviene per quadri che descrivono l’assurdità della vita “in prima linea”, che poi in realtà si scopre essere uno sperduto avamposto in mezzo al deserto. Se nelle sequenze domestiche il registro è decisamente drammatico, e preannuncia l’esplodere di controverse dinamiche familiari, nelle scene dal fronte il regista riesce, per contrasto, ad usare invece un tono ironico, surreale, brillante. Attraverso un espediente narrativo d’effetto, attraverso il quale il fato gioca crudelmente con i destini dei protagonisti, la narrazione poi tornerà all’interno delle mura domestiche, per dipingere un rinnovato, seppur fragile, equilibrio familiare. Il foxtrot che dà il titolo al film è il ballo, e rappresenta anche uno dei momenti emblematici del film, in cui il regista riprende uno dei giovani soldati al fronte che letteralmente danza con il proprio mitra. Sappiamo che il film ha poi ricevuto il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria.
L’indomani il Palabiennale propone – per la sezione Orizzonti – “West of sunshine” di Jason Raftoupoulos (prod. Australia) L’ambientazione è australiana, e riprende la giornata di un impiegato presso una ditta di consegne che, in mancanza di una valida alternativa, decide di portare con sé nel giro di consegne il figlio adolescente. Si intuisce che il ragazzo è turbato dalle vicende della recente separazione dei genitori: il rapporto con il padre appare difatti spigoloso e conflittuale. Grazie ad una serie di alterne vicende la storia offre gli spunti per un avvicinamento tra i due. Alcune forzature nella trama ed un registro che tende al patinato, a mio avviso non rendono il film particolarmente coinvolgente.
A seguire, fuori concorso, c’è “Our souls at night” di Ritesh Batra (prod. Usa) , con Jane Fonda e Robert Redford, che la sera prima avevano ricevuto il Leone d’Oro alla carriera. Il film è assolutamente godibile, la trama nella sua semplicità ha comunque uno spunto originale e poi si sgrana con trovate brillanti ma realistiche. I ruoli cuciti addosso a Jane e Robert sono adeguati ed equilibrati e la loro recitazione è efficace: le due leggende riescono ancora a trasmettere emozioni.
Per la sezione Orizzonti si prosegue in sala Volpi con “Marvin” di Anne Fontaine (prod. Francia) , che ci propone la storia di un timido adolescente, cresciuto nell’indifferenza di una numerosa e strampalata famiglia della provincia francese e vittima di bullismo a scuola. Il ragazzo riesce a trovare nella recitazione una forma di riscatto e la forza di allontanarsi dalla difficile realtà familiare. Ho trovato decisamente interessanti e brillanti i dialoghi che gli sceneggiatori, Anne Fontaine e Pierre Trividic, hanno saputo costruire per i protagonisti: nel ruolo di se stessa troviamo anche una tagliente Isabelle Huppert.
La serata si conclude con il film in concorso “La villa” di Robert Guediguian (prod. Francia) . A mio parere un bel film corale, intenso, che intreccia le vicende di tre fratelli, chiamati a raccolta al capezzale dell’anziano padre, che rianimano le stanze della grande casa di famiglia, con il grande terrazzo che affaccia sul mare, nei pressi di Marsiglia. Il ritorno al borgo e le vicende che si snodano in questo scenario sembrano scrostare la patina di cinismo e rassegnazione che ormai da anni ha immobilizzato i fratelli.
L’ultima mattinata al Lido comincia con “Victoria & Abdul” (prod. Gran Bretagna) il film fuori concorso di Stephen Frears . Impeccabili i costumi e la scenografia, del tutto originale la trama, che prende spunto da un’insospettabile vicenda realmente accaduta, molto apprezzabile il registro scelto dal regista. Senz’altro efficaci gli attori: Ali Fazal, che dà vita all’intraprendente e colto servitore indiano e l’immensa Judi Dench, nel ruolo della regina Vittoria, che contrastando invidia e razzismo dei cortigiani, arriva a stringere un profondo rapporto di amicizia ed affetto con Abdul, che diventerà poi suo consigliere spirituale. Un tema, quello del rapporto tra diverse ed apparentemente inconciliabili realtà culturali, sociali e religiose, che Frears ambienta nell’Inghilterra vittoriana, ma che può essere facilmente declinato anche nella nostra attualità.
La mia avventura al festival si chiude con Paolo Virzì ed il suo “The Leisure seeker” (prod. Italia) , in concorso: un film, tutto ambientato negli Stati Uniti, riuscito e sicuramente esaltato dalla recitazione di due attori straordinari, Helen Mirren e Donald Sutherland, che a mio avviso avrebbero potuto aspirare a riconoscimenti anche in ambiente veneziano. Le emozioni non mancano, ben bilanciate da un contraltare di ironia e leggerezza, che accompagnano i due anziani e malandati coniugi nella loro audace fuga a bordo dello storico camper di famiglia. A mio parere Virzì ha con efficacia adottato un approccio lieve per raccontare comunque temi complessi e amari, legati al mondo della malattia degenerativa e dell’amore assoluto e senza età.
Reportage di: DiDo