Il 26 gennaio si è concluso il primo annuale appuntamento festivaliero del mondo del cinema, quel Sundance Film Festival fondato alla fine degli anni 70 e considerato ancora oggi a buon diritto il maggiore festival indipendente americano. Nel corso degli anni al suo interno sono state scoperte e presentate le opere prime dei maggiori registi anglosassoni attualmente in circolazione, quali Quentin Tarantino (“Le iene”), Wes Anderson (“Un colpo da dilettanti”) i fratelli Coen (“Blood Simple”) e Paul Thomas Anderson (“Sydney”).
Proprio quest’ultimo debutto vedeva la presenza, in un ruolo minore, dell’allora quasi trentenne Philip Seymour Hoffman, dando così il via a un sodalizio artistico che verrà portato avanti lungo tutto l’arco della carriera del regista di “Magnolia”, fatta eccezione per il capolavoro “Il petroliere”. E in questo 2014 erano ben due le pellicole che Hoffman era venuto a promuovere al Sundance, dopo avervi presentato nel 2010 il suo debutto alla regia intitolato “Jack Goes Boating” (inedito in Italia). Ma dispiace constatare come, a una settimana esatta dalla conclusione del festival, queste due opere rimarranno le ultime della sua carriera (tralasciamo gli inutili interrogativi riguardo al suo ruolo nei sequel della saga di “Hunger Games”, ancora in produzione): il 2 febbraio infatti Philip viene ritrovato morto nel suo appartamento, a causa probabilmente di un overdose. Chi lo seguiva con attenzione sapeva che l’attore era entrato meno di un anno fa in un centro di disintossicazione, di sua spontanea volontà, per problemi legati all’uso di eroina. Ma il tutto sembrava essere stato lasciato felicemente alle spalle e la sua partecipazione al Sundance appariva come una conferma felice e sicura. Purtroppo non è stato così.
Per noi spettatori sarà molto difficile rivedere ora una scena tratta da uno dei più grandi film del decennio appena trascorso, il tragico “Onora il padre e la madre”, l’ultima opera dell’immenso Sidney Lumet: quella nell’appartamento dello spacciatore androgino, che prende inizio con uno splendido piano-sequenza e durante la quale Andy, il personaggio interpretato da Philip, si fa iniettare steso sul letto una dose di eroina (chissà se Lumet conosceva “Le conseguenze dell’amore” di Paolo Sorrentino).
La sua visione assumerà probabilmente un effetto simile alla scena finale di “Stand By Me – Ricordo di un estate” quando la figura di River Phoenix, allontanandosi di spalle, scompare lentamente, creando un immediata correlazione con la sua tragica morte, causata purtroppo anche in quel caso da un overdose.
Sarà forse quindi meno doloroso ricordare Philip per altre sue interpretazioni, tralasciando quelle più blasonate e premiate, come ad esempio quella del sopravvalutato “Truman Capote” (dove, sia chiaro, Philip compie come suo solito un lavoro egregio). Escludendo “The Master”, “Synecdoche, New York”, “I Love Radio Rock”, il già citato “Onora il padre e la madre” e “La famiglia Savage” i suoi ruoli migliori sono sempre infatti quelli da non protagonista, una categoria che sembra essere stata creata apposta per lui: tanto più è breve la sua apparizione sullo schermo, tanto più la sua performance rimane impressa. Pensiamo al processo finale di “Scent Of A Woman”, alle irresistibili espressioni di fastidio causate dal Drugo nello studio in “Il grande Lebowski”, alle telefonate oscene di “Happiness” e a quelle musicali in “Quasi famosi”, ai suoi eccitamenti omosessuali alla vista dell’enorme fallo di Mark Whalberg in “Boogie Nights” e a quelli etero (ma poco legali) con la studentessa minorenne Anna Paquin in “La 25ª ora”, fino ad arrivare al canto collettivo di Wise Up di Aimee Mann in “Magnolia”.
Piccoli ruoli per un attore gigantesco, andatosene come al solito troppo presto.
Federico Forleo