One More Time With Feeling e Heart of a Dog: visioni parallele
É chiaramente improponibile mettere a confronto due opere tanto diverse tra loro come “Heart of a Dog” e “One More Time With Feeling”: quella che segue non vuole quindi essere una canonica recensione ma una serie di spunti per la lettura parallela di due film difficilmente catalogabili. Non si tratta infatti di documentari né di fiction, né tantomeno abbiamo a che fare con film di pura cronaca musicale: i generi cinematografici qui si mescolano tra loro fino a produrre qualcosa di molto più vicino al film d’arte.
Il film di Laurie Anderson è stato presentato nelle sale italiane il 13 e il 14 settembre, quello di Andrew Dominik su Nick Cave il 27 e il 28 settembre ed è di questi giorni la notizia che, visto lo straordinario successo di pubblico, quest’ultimo verrà riproposto nei cinema il prossimo 1 dicembre.
Grief does not change you, Hazel. It reveals you.
John Green, The Fault in Our Stars
They told us our gods would outlive us
They told us our dreams would outlive us
They told us our gods would outlive us
But they lied.
Nick Cave, Distant Sky (da Skeleton Tree, 2016)
Probabilmente basterebbero anche solo queste due citazioni – benché la prima provenga da una fonte assolutamente esterna ai film di cui parliamo – per dare un’idea dei differenti approcci dei due artisti nei confronti del Tema dei temi: la morte.
Per la Anderson, la perdita dell’amatissima cagnolina Lolabelle e del marito Lou Reed, il “magnificent spirit” al quale è dedicato il film “Heart of a Dog”, diviene un complesso viaggio introspettivo, un intenso monologo interiore che la riporta all’infanzia, a un difficile rapporto con la figura materna, all’individuazione del proprio sé e della vocazione artistica – anch’essa avvenuta dopo un evento traumatico.
Ma quanto possono davvero il trauma, il dolore, la sofferenza essere d’aiuto alla creazione artistica? Domanda sottesa ad entrambi i lavori (in quello su Cave la questione è posta esplicitamente più volte – e del resto il tema della morte è da sempre presente nelle sue composizioni).
Indubbiamente il femminile mostra di avere qualche risorsa in più, dato che in entrambi i film le figure femminili sembrano trovare una nuova dimensione proprio nella creatività: Laurie Anderson nel portare avanti il suo percorso artistico, da sempre incentrato sulla multimedialità, utilizzando il linguaggio cinematografico – con un chiaro richiamo alla lezione della cineasta americana Maya Deren, celebre musa dell’underground americano.
Susie, la moglie di Nick Cave, che nel precedente documentario “20,000 Days On Earth” (2014) non appariva se non come suggestione nella visione del protagonista, in questo nuovo dolente capitolo della storia si mostra con tutte le sue fragilità ma anche con un forte desiderio di rinascita, abitando scene e ambienti di un bianco abbagliante – in evidente contrasto con il nero sempre dominante nelle scene in cui Nick crea e registra la sua musica assieme al fedelissimo Warren Ellis e ai suoi Bad Seeds.
Cave si dibatte nel proprio caos interiore, fatto di conflitto, senso di colpa, incredulità, immergendosi nell’ipnosi del processo creativo per uscirne ancora frastornato, non riconoscendosi, vedendo un altro sé al di là dello specchio. Teme di aver perduto la voce. E’ combattuto tra la necessità tutta umana e il rifiuto di dare parole al trauma della perdita del figlio quindicenne Arthur, avvenuta nell’estate 2015: detesta l’idea di essere divenuto oggetto di pietà, di esser trattato con gentilezza, lui che in passato ha infranto tutti i limiti, esplorato tutte le ossessioni, rifiutato tutte le convenzioni come un perfetto eroe romantico. Tuttavia anche la perdita del padre all’età di 19 anni – raccontata nel film precedente, e non a caso proprio nel setting di una seduta psicoanalitica – ha avuto il suo peso nelle vicende umane e artistiche del musicista australiano (“The loss of my father created in my life a vacuum, a space in which my words began to float and collect and find their purpose” E ancora: “We each have our need to create, and sorrow itself is a creative act” Fonte: The Complete Lyrics 1978-2013).
Anche la forma cinematografica è interessante da leggere in parallelo: la Anderson sceglie di raccontare attraverso un’inquadratura filtrata da un vetro rigato di pioggia/lacrime, immagini low-fi, vecchie foto, disegni, animazioni, frammenti di ricordi sgranati: panorami che si susseguono in un montaggio poetico che è il suo personalissimo flusso di coscienza, fino a giungere alla serenità della meditazione, all’esercizio spirituale del “sentirsi triste senza esserlo veramente”. Fino alla decisione di accompagnare Lolabelle, ormai cieca e malata, verso la fine, ma senza forzarla, nel tentativo di comprendere e accettare il passaggio verso una nuova forma, ispirandosi al Libro Tibetano dei Morti. I’m thinking about the way that lost things always come back / Looking like something else/ A fishing pole, a shoe, an old shirt, a lucky day / Oh then they slip away into the remains of the day / Oh they slip away. (Slip Away, 2001)
Per contro, in “One More Time With Feeling”, il regista neozelandese Andrew Dominik utilizza un bianco e nero formalmente perfetto e sceglie di girare anche in 3D (NDR: chi scrive ha preferito vedere il film in versione “tradizionale”), alternando le interviste ai protagonisti a scene in cui entrano in campo anche i macchinari per la ripresa, come a voler ribadire ulteriormente una adesione al reale – un reale che è però talmente attinente al privato del protagonista da risultare quasi un tabù inavvicinabile, come nel finale di Girl in Amber, in cui il verso Don’t touch me si ripete a lungo, a metà tra minaccia e preghiera.
A un’immagine di raffinata eleganza esteriore, quasi intoccabile, vediamo perciò corrispondere una altrettanto intoccabile angoscia, una disperazione totale che non trova uscita se non nella consapevolezza: quella della propria esistenza come individuo, solitario abitante di un cosmo indifferente (e qui è evidente il richiamo alla filosofia esistenzialista), alla ricerca di un divino che illude e poi non si lascia trovare (Jesus was a liar, canta Nick Cave al termine di una intensa improvvisazione con Warren Ellis).
La consapevolezza: traguardo ricercato e probabilmente raggiunto anche dalla Anderson che attraverso il viaggio a fianco della sua cagnolina ristabilisce un’equilibrio con la natura e con i propri fantasmi, primo fra tutti quello della madre: “Era difficile trovare un ricordo positivo di lei perché in realtà io non le volevo bene…” è la faticosa ammissione della Anderson al momento di affrontare la sua morte. Lo sguardo animale come occhio dell’innocenza che scavando nell’inconscio può partorire, come mostrato nella sequenza iniziale del film, un nuovo sé.
Un futuro che ha ancora qualcosa da promettere, dunque, e che si intravede anche nella voce di Nick Cave, sostenuta dalla dolcezza della soprano danese Else Torp nella penultima canzone del disco, Distant Sky: tra l’altro, una delle poche sequenze del film in cui le immagini in bianco e nero lasciano il posto al colore.
Let us go now, my only companion
Set out for the distant skies
Soon the children will be rising, will be rising
This is not for our eyes
Recensione di Ludovica Valori
Maya Deren, Meshes of the Afternoon