Miracolo a Sant’Anna, regia di Spike Lee. Con Derek Luke, Michael Ealy, Omar Benson Miller, Pierfrancesco Favino, Valentina Cervi. Produzione: USA/Italia 2008.
Harlem, New York, anni ottanta: un impiegato di un ufficio postale, alle soglie della pensione, uccide a bruciapelo una persona in fila allo sportello. L’omicidio sembra un inspiegabile gesto di follia, ma un reporter alle prime armi riesce a vincere il silenzio dell’omicida che racconta come il fatto di sangue sia legato ad un episodio delle seconda guerra mondiale.
L’azione si sposta quindi in Garfagnana, nell’autunno del ’44, quando l’avanzata dell’esercito americano verso la liberazione del Nord Italia ci porta a contatto con la 92° divisione, i cosiddetti Buffalo Soldiers, composta esclusivamente da soldati afroamericani.
Quattro di essi vengono abbandonati ai piedi di un villaggio arroccato sulle rive del fiume Serchio, a ridosso delle linee nemiche. L’incontro casuale da parte dei quattro con un bambino sopravvissuto alla Strage di Sant’Anna di Stazzema porterà i protagonisti a rifugiarsi nel vicino paese, dove verranno accolti e rifocillati, entrando in contatto anche con un gruppo di partigiani del luogo, tra cui si cela un traditore, le cui azioni porteranno al tragico epilogo ed alla conseguente spiegazione dell’episodio del prologo.
Prima o poi doveva accadere. Dopo una lunga e onoratissima carriera, anche Spike Lee ha clamorosamente sbagliato un film. Non che l’idea di parlare della seconda guerra mondiale dal punto di vista degli afroamericani non fosse interessante, né tanto meno lo spunto del contatto forzato tra contadini e montanari italiani con soldati neri non fosse stimolante (“non avevo mai toccato un bianco”, confessa candidamente il soldato Train uno dei quattro commilitoni, ribattezzato ‘il gigante di cioccolato’ dal bambino che è stato salvato, mentre lo protegge tra le sue enormi braccia).
La maestrìa nel descrivere le difficoltà di convivenza tra bianchi e neri resta un tratto caratteristico dell’opera di Lee, così come la sottile ironia che traspare nei dialoghi tra afroamericani, che non perdono occasione per offendersi a vicenda con l’epiteto ‘negro’.
Ancor prima di entrare nel merito della scelta del soggetto, tratto da un romanzo del 2001 di James McBride, la critica principale da muovere nei confronti di quest’opera riguarda proprio la sceneggiatura: film poco omogeneo, troppo lungo, con situazioni poco credibili (una festa danzante nella chiesa di paese al suono della fisarmonica , coi tedeschi alle porte, oppure la facilità di comunicazione tra gli americani e la popolazione locale), con continui rallentamenti di ritmo poco funzionali alla riuscita della pellicola per finire con un paio di luoghi comuni sulla guerra (la guerra è brutta per tutti, per chi la combatte indipendentemente dallo schieramento e per chi la subisce, per finire con un banalissimo ‘i bambini ci guardano’) assolutamente imperdonabili per un autore dello spessore e l’importanza del regista newyorkese.
Si stenta a credere che dietro a questo film ci sia lo stesso autore di capolavori come Fà la cosa giusta, He got game o i più recenti Summer of Sam e La 25° ora. Non basta la sincerità dell’intento di valorizzare il ruolo degli afroamericani nella seconda guerra mondiale, raccontandone aspetti sconosciuti ai più per perdonare a Spike Lee un film così grossolano ed ingombrante.
Infine solo poche righe sulla discussa interpretazione delle cause della Strage di Sant’Anna di Stazzema. Nonostante la doverosa premessa iniziale, che esprime chiaramente il lavoro di pura fiction molto liberamente ispirato a fatti realmente accaduti, riteniamo comunque un grosso errore, in quest’epoca di esasperato revisionismo storico, proporre una versione dei fatti così distorta, che porta a considerare un’azione di guerra quella che nella realtà è stata una delle stragi più efferate e disumane dei nazisti.
La particolare crudeltà dell’episodio ed i successivi insabbiamenti per cancellarlo dalla storia dovevano spingere gli autori ad un maggiore rigore nei confronti della vicenda, rispettando la sacralità e l’inviolabilità del ricordo di quei morti; parlarne in questo modo, anche se si tratta di fiction vuol dire farli morire due volte.
Recensione by Fabrizio
il fascino del film sta in alcune scene di significato più universale…come la preghiera, le battute sulla convivenza tra neri e italiani…