Millennium, Uomini che odiano le donne, regia di David Fincher, con Daniel Craig, Rooney Mara, Christopher Plummer, Stellan Skarsgard, Robin Wright. Musiche: Trent Reznor & Atticus Usa/Svezia/Gran Bretagna/Germania, 158 minuti
Prima di aver conosciuto i libri di Stieg Larsson, forse avevamo della Svezia una visione edulcorata e molto “politically correct”; non ritenevamo che sotto l’apparenza di sviluppo civile, che da sempre ne fanno uno dei paesi più avanzati del mondo, si potessero nascondere incrostazioni di grave violenza ed intolleranza, anche se, a onor del vero, ciò che avveniva sulla scena Metal scandinava negli anni novanta, animata da gravi violenze legate a fenomeni di esoterismo e di satanismo, ci aveva fatto un po’ riflettere. La saga “Millennium” dello scrittore svedese ci ha, comunque, decisamente aperto gli occhi, così come le trasposizioni cinematografiche svedesi dei romanzi. Soprattutto il primo film, “Uomini che odiano le donne”, del 2009, di Niels Arden Oplev ci era sembrato teso ed avvincente, mentre i sequel avevano un po’ mostrato la corda, reggendosi essenzialmente sul personaggio di Lisbeth Salander, l’anarco-punk hacker disadattata, abilissima nelle strategie investigative, interpretata con molta efficacia e realismo da Noomi Rapace.
Ed è proprio la protagonista femminile che fa la differenza, nel nuovo film, che viene centrato, molto più del primo sulla sua figura aspra di outsider, priva di famiglia e affidata ai servizi sociali, che, armata solamente di un computer ed una motocicletta riesce a mettere all’angolo un gigante economico, ed a disvelare una oscura trama familiare, aiutando, e letteralmente salvando la vita del protagonista della storia, Mikael Blomqvist (un eccellente, misurato Daniel Craig), coraggioso giornalista d’assalto. Questa adolescente ribelle, minuta, cinica e di pochissime parole, forse più vulnerabile del medesimo personaggio interpretato dalla Rapace nella trilogia svedese, ma che sa stare dalla parte delle cause giuste, è interpretata magnificamente da Rooney Mara, e diventa la vera anima del film.
La vicenda è ormai nota, quantomeno agli appassionati dello scrittore svedese, una limpida e coraggiosa figura del giornalismo di denuncia, noto per le sue coraggiose inchieste sul neonazismo svedese e sugli abusi delle multinazionali, morto nel 2004 a soli cinquant’anni, e diventato famoso in tutto il mondo un anno dopo per la trilogia “Millennium”.
Un vecchio patriarca, ex magnate industriale, Henrik Vagner (Christopher Plummer), convoca Mikael Blomkvist, in crisi per aver perduto una causa contro un corrotto e potente capitano d’industria, sulla sua isola vicino Stoccolma, e gli dà incarico di scrivere le sue memorie, e soprattutto di far luce su un mistero che ha condizionato la sua vita familiare, la scomparsa, quarantanni or sono della nipote Harriett, di cui non si è mai trovato il cadavere. Pur abbastanza scettico sulle possibilità di far luce sul mistero, Blomqvist accetta, ed inizia la sua indagine chiedendo la collaborazione della hacker Lisbeth Salander, la quale tramite il computer conosce già perfettamente ogni angolo della sua vita, e che istintivamente è attratta da lui.
I due daranno vita ad una complicata indagine, fortemente osteggiata dai componenti della famiglia del Patriarca, che a seguito di numerose scorribande in una Stoccolma livida e tenebrosa, porterà al disvelamento del mistero, che evidenzierà l’occulto nazismo di alcuni dei membri di essa, intrecciato ad un atavico, spietato ed ereditario odio per le donne, motivato anche da fanatismo religioso, rendendoci noto un quadro della Svezia lontanissimo dal perbenismo che la Borghesia di quel Paese ha sempre voluto dare di sè. Nel frattempo tra di essi nascerà una strana relazione d’amore, resa incostante dalla disordinata vita sessuale di Blomqvist.
Il film è magistrale, è un thriller obliquo dalle immagini sempre insolite, pervaso da segnali millenaristici di morte, da atmosfere cupe e sepolcrali, fortemente allucinatorio, e nutrito da un senso di costante inquietudine, sin dai magnifici titoli di testa, corredati dallo splendido rifacimento “industrial” di Immigrant Song dei Led Zeppelin, da parte di Trent Reznor & Atticus.
D’altro canto David Fincher non a caso è l’autore degli splendidi “Seven” (dove pure si narrava di uno spietato serial killer biblico) e “Zodiac” (l’inquietante indagine su di un serial killer californiano della fine degli anni sessanta, realmente esistito, mai trovato), due tra i migliori thriller dei nostri anni, entrambi molto presenti nelle atmosfere dell’opera.
L’unico appunto che si può fare al film è di aver stemperato l’occulta matrice neonazista presente nei romanzi di Larsson (e nel film svedese), che lo scrittore assumeva a paradigma occulto dei rapporti sociali della sua Svezia, con il risultato di presentare scene di orribile violenza, le quali, prive del contesto socio culturale in cui dovevano essere inquadrate, sembrano un po’ fini a sé stesse. In particolare la sadica sodomizzazione che subisce Lisbeth dal “tutore” dei servizi sociali cui è affidata, e la sua conseguente spietata vendetta risultano scarsamente comprensibili, mentre nel libro e nel precedente film sembravano meglio motivati.
Ciononostante, il film, soprattutto per le sue qualità visionarie ed anche per la splendida ed efficace colonna sonora composta dai due autori citati, vince nettamente il paragone con l’analogo svedese, che al confronto sembra essere quasi di matrice televisiva. Per di più il nichilismo macabro da cui è pervaso non risulta affatto gratuito, in quanto i due protagonisti, pur con le loro peculiarità ed oscurità caratteriali, si battono senza esitazione, con abnegazione per il trionfo di una qualche forma di giustizia.
Recensione di Dark Rider