Manhunter – Frammenti di un omicidio, di Michael Mann, con William Petersen, Dennis Farina, Brian Cox, Stephen Lang, Joan Allen, Tom Noonan. Produzione: USA, 1986. Durata: 119’.
L’ex profiler dell’Fbi Will Graham (William Petersen), ritiratosi a vita privata dopo l’arresto dello psichiatra/serial killer Hannibal Lecktor (Brian Cox), è richiamato in servizio per dare la caccia ad un nuovo pericoloso assassino soprannominato “Dente di fata” il quale, durante le notti di luna piena, ha già massacrato due famiglie. Titubante e ancora segnato dalle ferite fisiche e psichiche inflitte durante lo scontro con Lecktor, Graham accetta, nonostante gli enormi rischi per la sua famiglia. Alla ricerca di indizi, l’agente dell’Fbi ben presto si ritrova a dover calarsi nuovamente nella mente di uno psicopatico ma, senza prove e tracce concrete, deve chiedere un inaspettato aiuto allo stesso Lecktor, l’unico capace di poter guidare la polizia e gli agenti federali verso l’assassino.
Tutti conoscono il famoso personaggio di Hannibal Lecter, creato dalla penna del romanziere americano Thomas Harris e salito alla ribalta grazie al regista Jonathan Demme che, nel 1991, ha trasposto sul grande schermo Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs), uno dei più grandi thriller degli anni Novanta. Eppure, affermare che la prima apparizione su celluloide del raffinato e spietato psichiatra/antropofago sia opera di Demme, è sbagliato poiché, cinque anni prima, ci ha già pensato Michael Mann (autore di capolavori senza tempo come Heat – La sfida e Insider – Dietro la verità) a portare al cinema il personaggio di Harris con Manhunter – Frammenti di un omicidio (Manhunter, 1986).
Tratto dal romanzo I delitti della terza luna (Red Dragon, 1981), Manhunter è l’opera terza del regista di Chicago – dopo lo splendido noir Strade violente (Thief, 1981) è il body horror La fortezza (The Keep, 1983) –, una sagace caccia al “mostro”, una corsa contro il tempo prima del prossimo delitto efferato che viene vissuta, dallo spettatore, quasi in prima persona. Infatti, la caratteristica principale del film di Mann è quella di offrire, oltre il punto di vista dell’agente Will Graham, anche l’insolita prospettiva del serial killer. Fin dalle battute iniziali, Manhunter – Frammenti di un omicidio ci fa entrare nella folle mente deviata di Dente di fata, permettendoci di vedere l’alterità della realtà attraverso gli occhi di un assassino. Ed è proprio questo aspetto che, senza dubbio, discosta Manhunter dal classico e già visto thriller basato sullo scontro tra bene e male poiché, il terzo lungometraggio di Michael Mann è un’opera sul vedere, uno dei temi estetici di molto cinema anni ’80.
Costruito su un doppio circuito visivo suddiviso tra Graham – magistralmente interpretato da William Petersen (già protagonista assoluto l’anno prima nel thriller metropolitano di William Friedkin Vivere e morire a Los Angeles) – e il terribile serial killer Dente di fata, Manhunter riesce a trasmettere tensione e angoscia in maniera superlativa, merito anche delle cupe, notturne e piovose location urbane (marchio di fabbrica di Mann) e dei claustrofobici e disturbanti interni allestiti da Dante Spinotti.
Un circuito, una sovrapposizione visiva che converge nell’orrore più puro quando, lentamente, l’identità del killer viene svelata e la macchina da presa (e lo spettatore insieme ad essa) entra nel suo disturbato mondo. Michael Mann riesce a mostrare, direttamente e indirettamente ma senza compiacimenti gratuiti ed elementi eccessivamente grandguignoleschi, tutto l’orrore scaturito dal male, qui rappresentato come incarnazione terrena, fisica e umana. Quello messo in scena al centro di Manhunter è uno scontro, una lotta all’ultimo sangue tra il Bene e il Male, tra sanità mentale e follia, con i personaggi costretti a dover oltrepassare i limiti fisici e mentali e varcare quel confine che separa il mondo della lucidità da quello nero e abissale della pazzia, pur di poter sconfiggere la propria nemesi.
Tra i più bei thriller metropolitani realizzati, Manhunter – Frammenti di un omicidio è, insieme a Strade violente e Vivere e morire a Los Angeles, un film chiave degli anni Ottanta, che vanta almeno tre scene indimenticabili (l’incontro in carcere tra Graham e Lecktor, la tigre sedata nello studio veterinario, il finale sulle note di In-A-Gadda-Da-Vida). Intriso dagli stilemi dell’epoca e permeato da quell’estetica della violenza essenziale per quella decade, il film di Mann è stato l’apripista per tutta una successiva generazione di thriller incentrati sui serial killer, come lo stesso Il silenzio degli innocenti e pellicole cult come Seven (Se7en, 1995) di David Fincher.
recensione di Francesco Grano