Sorelle Mai, regia di Marco Bellocchio, con Pier Giorgio Bellocchio, Donatella Finocchiaro, Elena Bellocchio, Maria Luisa Bellocchio, Letizia Bellocchio, Gianni Schicchi Gabrieli, Alba Rohrwacher. Durata 110 min. Italia 2010.
Marco Bellocchio porta avanti da sempre un rigoroso cinema di impegno intellettuale, ma capace come pochi al mondo di suscitare nello spettatore intense emozioni.
Sin dal primo film, “I Pugni in Tasca” sconvolgente esordio, il regista affondava il coltello nell’ipocrisia della vita borghese, realizzando un ritratto grottesco e dissacrante dell’istituzione ”Famiglia”, frutto di quegli anni di ribellione, con una interpretazione gelida e lancinante di Lou Castel.
Nel corso del tempo, nello snodarsi della sua vastissima filmografia, la sua capacità di introspezione si affinava, anche per la vicinanza, in qualità di sceneggiatore, dello psicoanalista Massimo Fagioli, in verità figura molto discussa nel campo accademico, ma certamente capace di contribuire alla realizzazione di un originale linguaggio cinematografico, sino a realizzare opere drammatiche come “Salto nel vuoto”, con Michel Piccoli, ritratto d’interni inerente il torbido rapporto tra fratello e sorella, specchio della sofferenza mentale, o “Gli Occhi, la Bocca”, ove ancora un intenso Lou Castel viveva forti sensi di colpa per il suicidio del fratello gemello, instaurando un rapporto morboso con la sua ex fidanzata.
Il magnifico “Principe di Homburg”, tratto dal testo poetico di Heinrich Von Kleist, descriveva la drammatica rappresentazione del conflitto tra etica e dovere, mentre la cifra onirica evocava scenari di grande suggestione.
Autore inquieto, sempre disposto a mettere in discussione le proprie convinzioni, e la propria espressività, negli ultimi anni il Regista si è affacciato anche alla nostra storia recente, con il bellissimo “Buongiorno Notte”, rievocazione psicologica ed onirica del rapporto tra Moro ed i brigatisti carcerieri, e meno recente, con il potente “Vincere”, ove un magnifica interpretazione di Filippo Timi ci regala un intenso ritratto del giovane Mussolini, nel drammatico conflitto con la moglie misconosciuta Ilda Dalser, interpretata intensamente da Giovanna Mezzogiorno.
Marco Bellocchio si cimenta ora con un’opera apparentemente minore, articolata in sei episodi realizzati in un arco temporale che dal 1999 giunge sino al 2008, che ruota su scenari di vita della famiglia Mai, con tratti fortemente autobiografici. Nati dai corsi estivi che annualmente il Regista tiene a Bobbio, sua città natale, il film si svolge nella residenza originaria della sua famiglia, trasformando una mera esercitazione scolastica in un vero film d’Autore.
La struttura narrativa è certamente frammentaria, non trattandosi di un reale film di finzione, ma nel corso degli episodi abbiamo modo di fare la conoscenza, apprezzandoli, di molti esponenti della famiglia dell’Autore, che in molti casi recitano sé stessi.
Così assistiamo alla parabola dell’inquieto regista Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio, figlio di Marco) alle prese con i suoi problemi sentimentali ed economici, perennemente alla ricerca di un ubi consistam, mentre il tempo è scandito dalla crescita della bambina Elena (altra figlia del Regista) che diventa adolescente e dal suo complesso rapporto con l’inquieta e assente madre Sara (Donatella Finocchiaro), completamente votata alla realizzazione della sua carriera di attrice a Milano, ma piena di sensi di colpa per la figlia.
La continuità degli episodi è affidata alle autentiche anziane sorelle di Bellocchio, Letizia e Maria Luisa, le Sorelle Mai del titolo, che nella realtà abitano da sempre in quella casa e che con la loro spontanea ingenuità e la loro inadeguatezza ai tempi moderni, conferiscono all’opera un tocco autobiografico e lievemente ironico.
Il film possiede una sua impalpabile intensità: inframezzato da spezzoni de “I Pugni in Tasca”, che fu girato in quella villa e da inquietanti immagini oniriche di ombre che a volte appaiono sulle mura, rievocando oscuri fantasmi del passato, rappresenta una riflessione dolente e malinconica sui legami familiari e sulle sconfitte esistenziali della vita.
E’ come se l’Autore avesse perso l’originaria rabbia sessantottina nei confronti della Famiglia come Istituzione, per stemperarla nella rassegnazione e nel disincanto, nella ritrovata consapevolezza che il passare del tempo non porta a maturazione le persone ed i rapporti, ma risulta foriero solamente di crescente solitudine, che è comunque necessario combattere.
La cifra stilistica dell’opera, però, risulta complessivamente indefinita e frammentaria: i personaggi sono spesso solamente abbozzati, come la professoressa (Alba Rohrwacher) che improvvisamente si rende conto che a causa della sua insoddisfacente situazione sentimentale ha rischiato di far bocciare un ragazzo.
Pur nella sua irresolutezza il film ha comunque il merito di delineare psicologie umane con grande intensità e capacità introspettiva e di trasferire allo spettatore sottili emozioni, passando con disinvoltura da serene scene conviviali ed agresti descritte con dolente lirismo all’evocazione di passaggi d’incubo derivanti da sottili incomprensioni, quasi che il non detto fosse più rilevante di quanto asserito.
Nell’ultima splendida sequenza le acque del Trebbia, più volte rievocate come luogo di amori nati e perduti, di speranze e delusioni, sono testimoni dell’addio alla vita di Gianni (Gianni Schicchi Gabrielli), saggio amico di famiglia nella finzione e nella realtà, che sceglie di recitare la sua fine in frac in una drammatica e poetica performance.
Recensione di Dark Rider