ANOTHER YEAR, regia di Mike Leigh, con Jim Broadbent, Ruth Sheen, Lesley Manville, Oliver Maltman, Imelda Staunton, David Braidley. Durata 129 min.Gran Bretagna, 2010.
Mike Leigh è uno dei più grandi registi inglesi. Con opere mirabili, come High Hopes, Il Segreto di Vera Drake, Segreti e Bugie, ha investigato l’animo umano, le complesse relazioni tra le persone, la difficoltà di esistere.
Nato come regista televisivo, ha sempre di più affinato le sue armi psicologiche, scandagliando la vita ed i recessi dell’anima dei suoi personaggi, che rispecchiano fortemente la vita reale, la sua complessità, le sue contraddizioni. Mentre Ken Loach descrive mirabilmente la qualità sociale e politica delle relazioni in Inghilterra, Mike Leigh si è venuto sempre più caratterizzando come regista dell’introspezione psicologica.
La storia è minimalista: attorno a Gerry (Ruth Sheen) e Tom (Jim Broadbent), coniugi attempati, lei psicologa in un centro pubblico, lui geologo per conto dello stato, tuttora solidamente uniti, con un figlio, Joe, non troppo espansivo (Oliver Maltman), che esercita la professione di Avvocato anche per gli immigrati, in un tranquillo villino alla periferia di Londra con annesso un orto che i due coltivano con dedizione, si raccolgono amici con diverse problematiche, uniti da una caratteristica fondamentale: la solitudine.
Il regista, già titolare di una nomination all’Oscar per la sceneggiatura, in questa nuova opera li segue nel corso di quattro stagioni e si concentra sull’infelicità e la solitudine dei rapporti umani e sul modo di gestire queste situazioni. Come sempre in Leigh le complesse vicende umane dei personaggi sono focalizzate al meglio, utilizzando una recitazione straordinaria, che si esplica con straordinaria efficacia nei dialoghi come nei silenzi.
Il film inizia con una donna (la grande Imelda Staunton, già icona di Leigh) che si rivolge ad un consultorio pubblico, dove farà la conoscenza della psicologa Gerry, affranta dalla mancanza di sonno; totalmente inespressiva, spenta, la donna sembra non avere più speranze per la propria vita; le interessa solamente trovare una cura che la faccia dormire.
Poi, perdute le tracce di lei, la scena si sposta nel villino periferico, residenza dei due coniugi che ricevono le viste degli amici, e dove spicca la dolente esistenza di Mary (una straordinaria Leslie Mansville), collega di Gerry, frustrata e infelice per le delusioni sentimentali e per una solitudine che, avanzando l’età, si fa sempre più lancinante ed inesorabile.
Il fluire delle stagioni porta allo snodo di diversi avvenimenti, della vita e della morte. Assistiamo così al tentativo dell’amico di gioventù Ken, oramai imbolsito, (Peter Wight) di conquistare Mary, che lo respinge seccamente, inutilmente infatuata del figlio di Gerry e Tom e, nel week end invernale, facciamo la conoscenza del fratello di Tom, il dolente e silenzioso Ronnie (David Braidley), improvvisamente vedovo, probabilmente reduce da una dura vita di conflitti, come la rapida apparizione del figlio rancoroso al funerale della madre lascia intuire.
I dialoghi, le risa, le baruffe, le bevute tra gli amici sono realizzate con mirabile abilità registica; l’onda dei ricordi dei due coniugi, della loro libera giovinezza, del 68, della loro partecipazione hippy al grande concerto dell’Isola di Wight, dei loro viaggi, è rievocata con toni sommessi e felici, sottolineando una stabilità affettiva che trae origine dalla condivisione giovanile delle grandi passioni e degli avvenimenti dell’epoca.
Il film si chiude sul primo piano del volto doloroso di Mary, allontanata seccamente dalla famiglia a seguito dell’intemperanza dimostrata nei confronti della ragazza di Joe, e riammessa dopo essersi scusata, ormai sconfitta, ammutolita, chiusa nella sua disperata solitudine senza speranza.
La dolente poetica dei rapporti umani, dell’incomunicabilità, che diviene la rappresentazione della vita stessa e persino dei suoi tempi morti, fanno di questo film del Maestro inglese, che ipnotizza e seduce con la estrema normalità della sua narrazione, oltre che un perno della sua eccezionale filmografia, un’opera che risplende nel panorama cinematografico contemporaneo e che si lascia di gran lunga preferire ai centomila effetti speciali spesso privi di anima che caratterizzano il linguaggio filmico attuale.
Lui stesso peraltro ha recentemente rivendicato questa poetica, sottolinenando che le sue opere non sono destinate ad un pubblico anziano, ma vogliono rappresentare la complessità delle umane vicende, che riveste valore universale.
Recensione di Dark Rider