L’Amore Che Resta, regia di Gus Van Sant, con Henry Hopper, Mia Wasikowska, Ryo Kase, Schuyler Fisk, Lusia Strus, Jane Adams. Durata: 91 minuti Usa, 2011.
Gus Van Sant è l’esempio vivente di come si possa fare cinema “alternativo” pur restando nell’ambito delle produzioni hollywoodiane, senza rinnegare minimamente le sue convinzioni; è un profondo conoscitore della “Beat Generation” e della controcultura degli anni 60, che cita nei suoi film con piena cognizione, ed è autore di splendide opere come “Drugstore Cowboy”, dramma “beat” sulla tossicodipendenza, dove appare brevemente anche William Burroughs, guru della controcultura, “Cowgirl: il nuovo sesso” con una giovanissima e ribelle Uhma Thurman, e “Belli e dannati”, uno degli ultimi film di River Phoenix, considerato il muovo James Dean, drammaticamente scomparso nel 93, anch’essi totalmente pervasi dalla cultura beatnik.
Con “Will Hunting – Genio ribelle, il film con maggiori concessioni al “mainstream”, il regista affronta il problema del disagio di un giovane nei confronti dell’autoritarismo universitario, con lo splendido “Elephant”, opera inquietante, si ispira al drammatico, incomprensibile, eccidio di Columbine, con The Last Days, descrive lucidamente e dolorosamente lo straniamento esistenziale ed affettivo degli ultimi giorni prima del tragico suicidio del leader dei Nirvana, Kurt Cobain.
Con “Paranoid Park”, premiato dalla giuria a Cannes, e tratto dal romanzo di Blake Nelson, l’obiettivo dell’analisi è ancora il mondo giovanile, qui addirittura adolescenziale, rappresentato mirabilmente da attori non professionisti, nell’ambito di una drammatica vicenda che ha il mondo dello “Scateboard” sullo sfondo, mentre nel recente “Milk” vengono descritte mirabilmente le epiche battaglie per l’emancipazione del movimento omosessuale a San Francisco, rievocando la figura dell’omonimo leader, tragicamente ucciso.
Ne “L’Amore che resta”, con sensibilità minimalista, descrive il rapporto d’amore tra due adolescenti introversi, l’uno lo specchio dell’altra, Enoch (Henry Hopper, figlio esordiente di Dennis) e Annabel (Mia Wasikowska). Lei è malata terminale di cancro, le restano tre mesi di vita, vive con una zia, in quanto la madre è alcolizzata, lui è solo, per aver perduto i genitori in un incidente d’auto.
Si conoscono ad un funerale, entrambi li frequentano, forse per il senso di morte e di profonda solitudine esistenziale che li accomuna, e solidarizzano subito. La loro relazione, dapprima un po’ timida ed impacciata, diventa via via più intensa. Il ragazzo, solitario, taciturno, ha un amico immaginario, lo spettro di Hiroshi, kamikaze giapponese ventenne, morto in battaglia, con cui fa lunghe partite a scacchi, e che lo frena nei suoi impulsi eccessivi. Lei è una delicata pittrice di insetti ed uccelli, grande appassionata di Darwin, sempre sorridente, nonostante l’incombente tragedia, intenzionata a godere del dono della vita sino a quando possibile, e che ogni mattina ringrazia di essersi svegliata ancora viva.
Si potrebbe pensare che il film sia angoscioso e tenebroso, vista la tematica, e l’attesa dei due adolescenti, scandita dal countdown che inesorabilmente li separerà. Invece l’opera è sorridente e delicata, come se raccontasse una festa lunga tre mesi, e raramente descrive la tragica sofferenza di Annabel. Non c’è nessuna opzione narrativa strappalacrime, c’è leggerezza e sogno, c’è uno straordinario amore per la vita e le sue opportunità, e paradossalmente, il ragazzo, dopo la morte della compagna, ritroverà forse un suo equilibrio più stabile.
Anche se il tema può sembrare di facile presa, Van Sant, dimostrando di essere quel grande Autore che conosciamo, ci presenta queste due figure catatoniche, realizzando un doloroso e profondo apologo sulla solitudine, caratterizzato da una serena riflessione poetica sulla morte, in forma di tiepido melodramma con toni di commedia.
Il tema dell’amico immaginario, dispensatore di saggezza, non è nuovo (anni fa il regista underground romano Nico D’Alessandria aveva realizzato un misconosciuto e suggestivo film, dal titolo L’Amico Immaginario, con un intenso Victor Cavallo, intellettuale in crisi) ma è essenziale alla riuscita narrativa del film, fatto di pochi avvenimenti, e di impalpabili sensazioni, che lasciano un soffuso senso di confusa, dolente emozione.
Recensione di Dark Rider