Regia di DENYS ARCAND (2007) con Rufus Wainwright, Diane Kruger, Emma De Caunes, Marc Labreche
Denys Arcand, cineasta canadese del Quebec ha all’attivo diversi films dotati di notevole capacità di introspezione: si pensi a “La natura ambigua dell’amore”, film, che a metà tra thriller e dramma esistenziale, indagava sulla gioventù di ispirazione new wave dei primi anni 90, non privo di suggestione, ma irrisolto; “L’età barbarica” chiude idealmente una trilogia iniziata con “Il declino dell’impero americano”, nel quale un gruppo di intellettuali canadesi, amici di vecchia data, ex militanti della sinistra studentesca, si confrontava a tutto campo sui grandi temi della vita, ed in particolare sulle esperienze sentimentali e le relazioni sessuali, da cui emergeva da una parte che la percezione che gli uomini avevano della donna era molto meno progressista di quanto essi volessero far credere, e, dall’altra, veniva delineata con forza la fragilità, ma anche il profondo spessore umano delle loro compagne, e proseguita con il bellissimo ed emozionante “Le invasioni barbariche”, nel quale lo stesso gruppo di amici, dopo venti anni, accompagnava con amore ad una dolce morte uno di loro, malato senza speranza, dimostrando profondità d’animo e riaffermando con grande forza il valore intangibile dell’amicizia.
Nell’ultimo film, “L’età barbarica”(ma il titolo originale è molto più appropriato, “L’age des tenebrès”, viene invece delineato il profilo di un funzionario statale che ha superato la quarantina, Jean Marc Leblanc, tiranneggiato da una moglie supermanager di una Società immobiliare, non compreso dalle figlie, che, con la fantasia, si inventa un mondo parallelo dove è ammirato ed amato dalle donne, partecipa a convention sullo spettacolo, diventa leader politico, insomma una “second life” puramente immaginaria, dove trova conforto e rifugio da un mondo che lo circonda, cinico, fatto di gente che aspira solamente al denaro, di automobilisti aggressivi e violenti, di amici che parlano comunque per stereotipi, e non sono in grado di aiutarlo nella sua sofferenza.
Frequentando un club per “single”, poiché tale si ritiene, specialmente dopo che la moglie l’ha piantato per un lungo viaggio di affari, incontra una enigmatica ed affascinante donna, che lo coinvolge in un mondo di giochi di ruolo ispirati al mondo medioevale, ai quali partecipa goffamente, ma con inaspettato successo; anche da lei comunque fugge, atterrito dalla sua stravaganza ed originalità, ma forse temendone anche la valenza culturalmente regressiva, per tornare nel suo mondo immaginario.
Il film è, probabilmente, il più amaro e disincantato di Arcand, che sembra ipotizzare ormai l’avvento di un nuovo Medio-Evo dello spirito; è un drammatico apologo sulla solitudine: vi si descrive una umanità gretta, incapace di sentimenti, priva di idealità e di valori, votata solamente all’arricchimento personale; il protagonista, che pure rivendica con orgoglio le attività culturali e socio-politiche praticate in gioventù, quando era inserito in gruppi universitari, infatti, dopo l’ennesimo litigio con la moglie, si ritirerà in un cottage, vicino al mare, con l’intenzione di scrivere le sue memorie, nell’impossibile sogno di diventare scrittore, in totale solitudine, e perderà anche il suo mondo immaginario, ritrovandosi oramai sconfitto dalla vita.
Recensione by Dark Rider
non sono d’accordo sulla lettura del finale del film; per me si tratta invece di una rinascita, la riscoperta della semplicità della vita in campagna come antidoto alla barbarie corrente; lo sguardo d’intesa con la vicina è la speranza in un rapporto finalmente vero e sincero. Forse un po’ banale, ma per me è così….
anch’io sono in disaccordo sulla lettura del finale, ma non nel senso che dice fabrizio. Mi sembra giusto intuire questo adagio della “rinascita” nella fine del mondo immaginario, ma è implicita nel prosieguo l’ineffabile tristezza di tale epilogo. E’ chiara e fondamentale la denuncia di Arcand nei confronti dell’eremitaggio, visto pessimisticamente come l’unica via d’uscita dopo averle provate tutte, serena, ma nichilistica fuoriuscita dalle sfide della vita.
Tant’è che quando la “star” immaginaria esce liricamente di scena sulla sua triremi, il protagonista, indegno, viene messo a tacere dall’arte. Così come per tutto il film ha fatto l’arte/operazione artistica cinematografica di Arcand, che attraverso il montaggio e addirittura l’interazione tra i personaggi (la finzione) e la regia (il fattuale, tangibile lavoro del cinema sulla realtà), mette a tacere bunuellianamente la triste situazione emotiva del protagonista. Non posso infine trattenermi dal sottolineare l’evidente debito di questo film, e a posteriori anche degli altri della trilogia giustamente evocata, con lo spirito ribelle del surrealista Luis Bunuel, in versione oscura e tenebrosa. D’altronde non è questa forse una versione oscura e tenebrosa dell’epoca in cui lavorava il grande maestro francese?