Sacro Gra: Regia, Sceneggiatura, Fotografia: Gianfranco Rosi, Montaggio: Jacopo Quadri, Produzione, Italia, 2013 – Durata: 85 minuti.
Fortemente affascinante, visionario, ipnotico, il film di Gianfranco Rosi, vincitore della Mostra del Cinema di Venezia, pur realizzato nella struttura del documentario, si delinea come un flusso avvolgente di coscienza, con un gusto della visione totalmente originale, spiazzante, del tutto insolito. Si può certamente affermare che viene aperta una nuova pagina del Cinema, e non a caso i giurati veneziani coordinati da Bernardo Bertlucci hanno premiato quest’opera con il Leone d’Oro. Il grande regista, Presidente della Giuria aveva detto di voler essere sorpreso dalla Mostra, ed alla fine ha ammesso, nel conferire il premio a questo bellissimo film che supera la dicotomia tra documentario e fiction, di essere stato effettivamente sorpreso.
Una scommessa vinta, un progetto nel quale l’Autore ha investito le sue migliori energie, diventando per ben tre anni assiduo frequentatore del raccordo anulare della capitale, alla ricerca di personaggi, storie di vita, memorie visive, suggestioni.
Guardato con sufficienza da una parte della critica, e dallo stesso mondo del cinema, in quanto il film è privo di una storia reale, ma semmai è frutto di tante storie individuali, di tante solitudini rappresentative di quell’immensa fascia di popolazione romana che vive ai margini del raccordo Anulare, l’anello di Saturno che per 70 chilometri avvolge la metropoli, che per la sua natura di svincolo, di passaggio incessante rappresenta un luogo indefinibile, misterioso ed indescrivibile, dove l’automobilista a volte, quasi sotto un effetto ipnotico, perde la dimensione del tempo e dello spazio, dove il movimento rappresentato diventa il movimento del cinema, e dove i generi di documentario e di fiction si fondono in qualcosa di profondamente “altro”.
L’opera, pur realizzata con pochi mezzi, avvince, e, con pochi tratti sapienti, si insinua con discrezione nelle vite di persone insolite, descrivendoci mirabilmente esistenze ai margini.
Il regista, italiano nato ad Asmara, vissuto a lungo in America, in Turchia, ed ora nel nostro Paese, fu spinto dall’urbanista Bassetti, a sua volta ispirato da Renato Nicolini, diversi anni fa, nel corso di una comune passeggiata in auto sul raccordo anulare, a realizzare questa idea.
A riprova del talento che possiede, egli ha già ottenuto, nel 2009, il premio nella Sezione Nuovi Orizzonti, con un altro documentario, “Below The Sea Level”, che descriveva la vita di una comunità di homeless, in una base militare dismessa, in California, mettendo in luce la disgregazione sociale della metropoli, la ricerca di alternative del vivere e dell’abitare, la solidarietà come valore aggregativo nelle vite perdute e fuori binario.
Ed è anche questa la cifra stilistica di “Sacro Gra”: la descrizione, realizzata con pacatezza, delle vite solitarie, del dolore, della solitudine, della rassegnazione e l’accettazione di vite marginali.
Rosi ci mostra alcuni di questi personaggi, il pescatore di anguille, che vive in una zattera sul Tevere con la famiglia, e sciorina la sua semplice e pratica filosofia di vita, il suo autentico sapere sulla pesca contrapposto alla narrazione posticcia dei tabloid, il principe decaduto che vive in un monolocale con la figlia, e distilla perle di saggezza mentre la ragazza lavora al computer, e dolcemente lo asseconda, il botanico, esperto palmologo, che scientificamente combatte il punteruolo rosso, studiando e riconoscendone la presenza, anche con sofisticati strumenti elettronici, il principe solitario e triste, che fa ginnastica con il sigaro in bocca ogni mattina, ed affitta la sua grande villa “kitsch” per fotoromanzi e videoregistrazioni, il barelliere del 118 che soccorre amorevolmente le persone incidentate sul raccordo, giorno e notte, e trova dolcissime parole per la madre ormai quasi silente, colpita dal morbo di Alzhaimer, le ragazze, danzatrici da bar, che si preoccupano che il loro trucco non le faccia assimilare alle prostitute, le anziane prostitute transessuali che bivaccano nel pullmino cantando canzonette e maledicendo la vita grama, alcuni fedeli che scambiano un’eclisse al Divino Amore per una apparizione della Madonna.
Un film corale, felliniano, che trova la sua magia di luci e colori nelle ipnotiche immagini del raccordo di notte, nel lontano sfrecciare delle automobili di giorno, nelle auto bloccate dalla neve, descritte con tonalità cromatiche di grande suggestione, ovattate ed impalpabili, che diviene quasi un esoterico, misterioso contraltare a “La grande bellezza”.
Poetica della solitudine, della purezza, della rassegnata alterità, un documentario che avvince molto più di una fiction, e che esprime con le immagini un aspro, seppure pacato lirismo.
Il regista si avvicina in punta di piedi, quasi come se entrasse in un luogo sacro, a questo mondo di emarginati, così ricchi di umanità e di sfumature esistenziali, e li ritrae con innocenza, con rispettosa partecipazione, con un pacato affetto, e riesce a farci affezionare ad essi, a renderci emozionalmente partecipi delle loro vite straordinarie, animate da un soffio di poetica follia.
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