Apr 082017
 

La Tenerezza, di Gianni Amelio. Con Elio Germano, Micaela Ramazzotti, Giovanna Mezzogiorno, Renato Carpentieri

Produzione: Italia, 2016, durata: 103 min.

★★★½☆

 

La TenerezzaGianni Amelio è un colto e valoroso regista italiano, attivo fin dagli anni settanta, quando doveva competere con alcuni tra i più grandi Autori del cinema mondiale, come Antonioni, Fellini, Visconti, Pasolini. Figura che allora poteva sembrare di secondo piano, ma che nel corso dei decenni ha seguito un percorso artistico rigoroso e coerente, sino a rivelarsi come Autore originale ed importante, interprete profondo di una sorta di “Umanesimo” nel cinema, capace di parlare anche al presente, affrontando temi complessi, nella loro apparente semplicità.

Fin dai primi film, realizzati per la televisione, “La Città del Sole”, che descriveva la figura del filosofo Tommaso Campanella, ed “Il Piccolo Archimede”, imperniato sul rapporto innocenza cultura, segue un percorso di rigorosa indagine sociale, pervasa da una intensa riflessione sull’uomo ed i suoi valori. Il primo lungometraggio, “Colpire al Cuore”, è l’opera più coraggiosa realizzata in Italia in materia di terrorismo, ove l’Autore investiga nei rapporti conflittuali tra padre e figlio, anticipando una tematica che ritornerà molto spesso nella sue opere.

Ma è con “Porte Aperte”, tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia, con una straordinaria interpretazione di Gian Maria Volontè, che Amelio raggiunge una notorietà internazionale. La sua concezione umanista viene delineata attraverso la battaglia che un giudice compie per ottenere, durante il fascismo, per un pluriomicida convinto assertore della pena capitale, l’ergastolo, anziché la pena di morte.

Il ritratto del giovane carabiniere, semplice eroe de “Il Ladro di Bambini”, che ha il compito di accompagnare due orfani ad un istituto che li possa ospitare, e che, durante i vari tentativi, come un buon padre, valorizza la loro condizione di bambini, opera vibrante e poetica, ove il viaggio diviene espressione tematica, gli regala, successivamente, il Gran Premio della Giuria del Festival di Cannes, mentre, alcuni anni dopo, con “Così Ridevano”, descrizione di un appassionato rapporto tra due fratelli siciliani, la cui storia ricorda Rocco e i suoi Fratelli, vince finalmente il Leone d’oro al Festival di Venezia.

Con “Le Chiavi di Casa”, anch’esso basato sulla relazione padre figlio, ci regala un’opera dolente, ma paradossalmente allegra, realizzando il più bel film finora mai fatto sulla Disabilità, mentre con “La Stella che non c’è”, riprende il drammatico tema dei migranti, (già trattato molti anni prima splendidamente in “Lamerica”, opera vibrante e poetica), attraverso un viaggio verso la indecifrabile Cina, e con “Il Primo Uomo”, si confronta mirabilmente con la scrittura di Marcel Camus, attraverso un parallelo tra il personaggio dello scrittore francese, che ritorna in Algeria sulle tracce del padre e dei suoi familiari, e sé stesso, attraverso il suo ritorno in Calabria, rilevando analogie umane e culturali tra i due ambienti.

Ed ecco ora, che con “La tenerezza” riprende ad addentrarsi nei meandri delle relazioni familiari, delle loro paure e devastazioni, realizzando un’opera di forte impatto emotivo, che sottintende il melò, genere dall’Autore fortemente amato, ma che nel suo cinema non è stato mai interamente esplicitato.

Il film è incentrato sulla figura dell’avvocato napoletano Lorenzo Bonsignore, vedovo (uno straordinario Renato Carpentieri), che ha abbandonato la professione, nella quale, forse, non è stato integerrimo, che vaga per la città, e sembra non interessarsi ormai al mondo circostante, al punto da dimostrare nei confronti dei due figli (Elena, una intensa Vittoria Mezzogiorno) e Saverio (Arturo Muselli) totale indifferenza, se non aperta avversione.

Questo gelo tra padre e figli non viene spiegato, se non con flebili accenni ad una relazione che Lorenzo avrebbe intrattenuto mentre la moglie era ancora in vita. Ma qualcosa interviene di colpo a cambiare la sua vita: una famiglia del nord viene a stabilirsi nell’appartamento confinante: un ingegnere navale abbastanza problematico (Elio Germano), la moglie di lui (Micaela Ramazzotti), madre solare ed affettuosa di due bambini, che con la sua sbadata vitalità lo contagia, scardina il suo muro difensivo, e arriva a dargli un senso della famiglia che forse non ha mai conosciuto, neanche nel rapporto, un po’ stereotipato, che intrattiene con il suo nipotino, il figlio di Elena.

Ma la tragedia incombe, terribile ed inaspettata, eppure nemmeno lo schock ed il dolore sottraggono Lorenzo, dopo un sussulto di disperazione e rabbia, alla sua ineffabile aridità dei sentimenti, il suo cuore non sembra cambiare, non raggiunge quella tenerezza che aveva forse cominciato ad intravedere e percepire dentro di sè. Il film è doloroso, pieno di mistero, descrive uno stato d’animo, ma non spiega, non cerca le ragioni di una aridità (neanche l’entrata in scena dell’amante, interpretata con pochi tratti efficaci da Maria Nazionale, serve a chiarire qualcosa).

Il regista ci descrive un incessante peregrinare tra aule, ospedali, piazze, nella percezione di qualcosa di incombente, di ineffabile, di incontrollabile, ove l’identità di ciascuno è precaria, e rischia di sgretolarsi, dove la violenza incomprensibile, immotivata, ammanta l’opera di un cupo pessimismo. Ma forse un briciolo di speranza si intravede alla fine, quando la mano del protagonista e quella della figlia, che da sempre si strugge nel tentativo di comprenderlo, si sfioreranno.

Un film asciutto, essenziale, ma pieno di pathos e, nel contempo, di realismo narrativo: il dolore è contenuto, sussurrato, descritto come ineluttabile portato della vita. Un’opera di grande fascinazione, ambientata in una Napoli cupa e realistica, inquieta e permeata di una sincerità disarmante. Scegliendo un suo coetaneo come irrequieto protagonista, Amelio ha voluto narrare, forse con piglio parzialmente autobiografico, la bellezza delle persone, ma anche la loro sgradevolezza, le loro potenzialità ed i loro immancabili fallimenti. Egli mette insieme dei grandi interpreti, tratteggiando un apologo della solitudine: tutti tendono alla tenerezza, di cui al titolo, nessuno, forse per orgoglio, per egoismo, per incapacità, o pregiudizio, o per altri motivi, la riesce a vivere. Un film esemplare, dove, come in tutte le sue opere, Gianni Amelio ci rappresenta la sua idea di cinema che dice attraverso il non detto, nella finalità pienamente riuscita di esprimere l’inesprimibile.

Recensione di Dark Rider

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