La Pazza Gioia, di Paolo Virzì, sceneggiatura Francesca Archibugi, Paolo Virzì, con Micaela Ramazzotti, Valeria Bruni Tedeschi, Anna Galiena, Valentina Carnelutti, Bob Messini.
Produzione: Italia, 2016 Durata: 116’
La commedia italiana, nel corso degli anni, soprattutto sessanta e settanta, ha rappresentato un punto di osservazione privilegiato sulla vita del nostro paese, sui suoi pregi, i suoi difetti, i suoi tic, i suoi miti. Nel corso del tempo, sono apparse opere filmiche apparentemente brillanti, spesso improntate ad una severa satira di costume, il tutto con una amarezza di toni, a volte con sarcasmo, che scandagliavano i cambiamenti della vita sociale di quegli anni, dal costume sessuale alle difficili conquiste sociali. Alcuni di questo film, come “Il Sorpasso” sono diventati simboli di un’epoca della nostra storia, e sono stati riconosciuti come capolavori della cinematografia mondiale.
Paolo Virzì si sta dimostrando via via sempre di più l’erede dei grandi autori di quella gloriosa tradizione, come Dino Risi, Mario Monicelli, ed Ettore Scola, dei quali ha mutuato da una parte i toni introspettivi della satira di costume, ma anche la capacità di scansione drammatica nell’osservazione della realtà, con un costante entusiastico amore per la vita e le sue amare vicissitudini, in una bella immersione negli affetti, dove il confine tra drammaticità e romanticismo, e tra comicità e sofferenza, è molto sottile. Ci preme ricordare, tra tutte le belle opere che ha sinora realizzato, sia pure a fasi alterne, l’intensità poetica de “La Prima Cosa Bella”, la storia tragicomica di una famiglia livornese, e in particolare di una donna, Anna, dalla prorompente vitalità, interpretata negli anni giovanili da Micaela Ramazzotti e da una straordinaria Stefania Sandrelli nella maturità, che ci descriveva, in una memorabile interpretazione, il suo doloroso ma sereno percorso verso la morte.
Il nuovo film comincia in un luminoso mattino di inizio estate, nella comunità di accoglienza per disagiati mentali Villa Biondi, sulle colline pistoiesi. Una donna bella, elegante e ciarliera svolazza nel giardino della splendida villa, immersa nella bellezza della campagna toscana. E’ Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi), una nobildonna caduta in disgrazia, molto piena di sé, e che tuttora sembra vantare conoscenze di vari potenti. In realtà è affetta da un grave disturbo mentale, ed è lì ricoverata a seguito di drammatiche vicende, a causa delle quali è stata giudicata socialmente pericolosa.
Colta, logorroica, ed acutamente, a suo modo, attenta alla realtà che la circonda, è in grado addirittura di suggerire con una certa precisione terapie e dosaggi farmacologici alle altre pazienti, per le varie emergenze, ed a causa di ciò viene spesso ripresa dal personale sanitario della villa.
Lì incontra Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), di origini umili, maltrattata dalla vita, insicura, generalmente silenziosa, molto introspettiva, segnata da un dolore misterioso ed indicibile. Le due donne non potrebbero essere più diverse tra di loro, per estrazione sociale, sensibilità, ed esperienze di vita, Beatrice istrionica, chiacchierona ed empatica, Donatella magra e tatuata, sconfitta e dolente, eppure, forse per la classica attrazione degli opposti, e soprattutto per la vulcanica personalità di Beatrice, che induce l’altra a confidarsi, a darle fiducia, non tardano a formare un sodalizio amicale intenso e profondo, che le porta a fuggire insieme dalla casa di cura, durante una gita, mettendo nel panico l’intera struttura ospitante. Del resto, è Beatrice che, non rinunciando a sentirsi, pur nella sua infermità, razza padrona, accoglie l’altra sotto la sua ala protettiva, e la trascina rapidamente nell’avventura.
In questa fuga iniziata quasi per gioco, le due donne trovano una complicità, e si confrontano con il comune destino di assoluta solitudine, con il loro disagio di vivere. Attraverso momenti drammatici, confronti infelici con il proprio passato, incontri con ex amanti violenti e volgari e genitori assenti e sgradevoli, ma anche con personaggi bislacchi e divertenti, le due donne rivivranno ed elaboreranno le drammatiche vicende che sono all’origine della loro sofferenza psichica, in particolare Donatella, che avrà modo di rivedere brevemente il figlio, affidato ad una nuova famiglia.
Con questa esperienza che diventa viaggio, a seguito del furto di una automobile, esse vivranno momenti di depressione, ma anche di autentica, viva felicità. Al mesto, inevitabile ritorno a Villa Biondi, forse saranno in grado di accettare più serenamente il loro destino di escluse.
Si è parlato, a proposito di quest’opera, di ispirazione mutuata da “Thelma & Louise”, in realtà tale considerazione non ci sembra appropriata, in quanto in essa manca totalmente la pulsione di morte e la concezione nichilista del film di Ridley Scott; qui è presente amore per la vita e per le potenzialità inespresse che essa può dare, nella ricerca dell’altro da sé, del rimosso, dove le due “matte” interpretano il loro viaggio come un flusso di coscienza, come la liberazione provvisoria da una oppressione non tanto proveniente dalle mura della Villa che le ospita, quanto dai recessi più profondi del loro animo.
L’opera, in realtà, non è del tutto esente da elementi estetizzanti, che sembrano inseriti più per esigenze spettacolari che per motivi narrativi. Su tutti la sequenza del tentato suicidio di Donatella, che rivive il suo passato, il suo doloroso segreto, quando arrivò a gettarsi nel mare con il suo bambino; essa è trasformata in una esperienza onirica, quasi lisergica, a suo modo non priva di suggestione, ma non essenziale al contesto narrativo, di cui accentua, a nostro parere, l’elemento favolistico. Toccante ed intensa, invece, la sequenza del saluto al bambino, affidato ad altra famiglia, in riva al mare di Viareggio, dove con estrema sobrietà viene resa la tragedia vissuta e la solitudine di una madre. E bisogna sottolineare l’interpretazione magistrale delle due attrici, la classe di Valeria Bruni Tedeschi, che regala a Beatrice il sapore trasgressivo della verità, e Micaela Ramazzotti a Donatella una emotività autentica; entrambe forniscono alle due amiche tratti di intensità e di spessore umano assolutamente inconsueti nel cinema italiano di oggi, che in diverse sequenze arrivano a commuovere lo spettatore.
Molto di maniera, invece, la descrizione degli operatori sanitari, certamente permeati da una lodevole, moderna cultura basagliana, con la quale il regista livornese si è certamente e lodevolmente confrontato; in verità la realtà delle strutture di accoglimento dei disagiati mentali appare certamente in evoluzione, ma meno comprensiva e consolatoria di quanto l’Autore voglia descriverci in questo film.
Nel complesso, comunque, un’ opera intensa, profonda, nella quale Virzì fonde commedia amara, poesia, road movie, sorriso ed elemento drammatico insieme ad uno sguardo profondo e per nulla compiaciuto sulla sensibilità femminile, in un messaggio che trasmette amore per la vita e l’invito a non aver paura della follia e della diversità, viste, non come un pericolo da evitare, ma come una variante delle umane possibilità espressive.
Recensione di Dark Rider