Fuocoammare, Regia, Sceneggiatura, Fotografia: Gianfranco Rosi, Montaggio: Jacopo Quadri
Produzione: Italia, Francia 2016, Distribuzione: Cinecittà Luce/01 Distribution; Durata: 108 min.
Gianfranco Rosi è certamente uno dei più interessanti registi del nuovo cinema italiano.
I suoi documentari, a partire dal bellissimo “Below The Sea Level”, che narra le scene di ordinaria follia di una comunità di homeless in California, che vivono sotto il livello del mare, fino al fantastico, lirico, potente “Sacro Gra”, vincitore della Mostra del Cinema di Venezia 2013, che raccoglie le esistenze di persone che vivono ai margini della metropoli, e che diventa un pensoso apologo della solitudine, lasciano sempre il segno.
Il regista stavolta ha compiuto una impresa memorabile, un vero esempio di condivisione e creazione di cinema verità. Si è trasferito a Lampedusa per un anno e mezzo, è vissuto tra i suoi abitanti, condividendo le loro abitudini, i loro problemi, la loro passione naturale per il mare. Alcuni di essi si sono prestati alla recitazione di sé stessi, con naturalezza e spontaneità. Il suo film a suo dire nasce da una partenogenesi; nessuna sequenza è stata preordinata, mai scritta su carta, il film è nato girando, e soprattutto dalla lunga permanenza dell’Autore nell’isola, dal suo incontro con gli abitanti: a questo proposito esemplare è la sequenza dell’incontro visita tra il medico Bartolo e il bambino Samuele, che rappresenta un miracolo di spontaneità, diventando appunto puro cinema verità.
Un sincero, profondo amore per gli esseri umani pervade ogni sua opera, e quest’ultima non a caso ha vinto il festival di Berlino, aggiudicandosi l’Orso d’Oro, facendo seguito al già citato Leone veneziano del 2013.
Cinema rigoroso e poetico, affascinante dal punto di vista visivo, come solo i grandi registi degli anni sessanta e settanta ci hanno saputo donare. Questo nell’ambito di una poetica della semplicità, che descrive e riprende le persone nell’ambito della propria vita e delle proprie attività, come il bambino Samuele, che teme il mare, si trova meglio sulla terraferma, e si diletta a giocare con una fionda.
L’opera diventa uno sguardo sui migranti e la loro sofferenza, viene ripreso in diretta un salvataggio da un barcone; la macchina da presa, prima esitante, poi più decisa, penetra nella stiva ove sono ammassati decine di morti. Rosi ci fa assistere alla morte, con grande pudore, ci grida in faccia la disperazione dei sopravvissuti, ci mostra la mirabile accoglienza, il senso di umanità dei cittadini dell’isola, che si prendono cura di tutti, li registrano, prestano loro assistenza in un presidio medico, gestito dal dottor Bartolo, il protagonista dell’opera, che dal 1991 in poi ha visitato forse 270.000 profughi. Il medico sostiene che nonostante l’abitudine alla morte, non ci si abitua mai realmente ad essa, un essere umano degno di tal nome non toglie lo sguardo, si indigna, avverte la propria sconfitta. E ci dà, senza alcuna retorica, una profonda lezione su cosa possa significare la compassione.
Il film, al di là delle sue intenzioni, assume, in questa Europa, dove sembra che la solidarietà sia negata, una valenza politica. Dà voce agli ultimi, ascolta i loro gospel , la disperazione lucida di chi fugge da terribili guerre, e dalla Nigeria ha trovato rifugio in Libia, per subire nuove ed orribili violenze, la gioia incontenibile per aver superato le insidie del mare. Senza nessuna retorica, senza prendere parte, Rosi mirabilmente descrive, osserva, e ci mette a confronto con una realtà che rimuoviamo, che non vogliamo vedere, accettare. E ci accompagna, ci mostra i sacchi che contengono i morti, i sussulti, il delirio dei salvati, stremati, ci costringe a vedere, ad esercitare il nostro occhio pigro, come quello del bambino che deve farlo, come da prescrizione medica. E ci regala, inoltre, indimenticabili sequenze subacquee, di una sublime bellezza lirica.
Un cinema affascinante, lirico, di denuncia civile, ma privo di qualsiasi retorica ideologica. Un canto per ogni essere vivente, da cui emerge un grande amore per la vita. La semplice e profonda rivisitazione di un Umanesimo che nessuna atrocità potrà mai cancellare del tutto.
Recensione di Dark Rider