Apr 072010
 

Happy Family. Regia di Gabriele Salvatores. Con Fabio De Luigi, Diego Abatantuono, Fabrizio Bentivoglio, Margherita Buy, Carla Signoris, Valeria Bilello. Durata 90 min – Italia, 2010

★★★☆☆
Dopo il cupo e confuso Come Dio comanda tratto dal romanzo di Ammaniti, Gabriele Salvatores torna con buoni risultati alla commedia solare. Volutamente recupera un happy handing, quasi una scommessa visti i tempi cupi che viviamo, ma lo fa con leggerezza e con stile, dimostrandosi un solido regista che pur da tempo integrato nel sistema “mainstream”, muove le sue carte con intelligenza e creatività. In una Milano insolita e fortemente favolistica, nell’ambito di una cornice teatrale (il film si apre e si chiude con un sipario) viene raccontata, con toni leggeri e divertenti la storia di Ezio (il bravo Fabio de Luigi), sceneggiatore svagato e creativo, che si accinge a scrivere una storia che rappresenta dei personaggi, che come quelli pirandelliani entrano nel testo e nella vita dell’autore. Personaggi che esigono, anche rivolgendosi allo spettatore, un ruolo più importante, costringendo ad un certo punto l’Autore stesso a continuare a scrivere e che fanno parte delle vicende di due famiglie che si incrociano ed alla fine si ricompongono quasi in una. Tema conduttore dell’opera è la paura di amare senza essere riamati, di odiare, di perdere la salute e morire, di intraprendere nuovi percorsi esistenziali. L’occasione perché le famiglie si incontrino è creata da due sedicenni, Filippo e Marta, che hanno deciso di sposarsi; i genitori di Filippo, gli alto borghesi Fabrizio Bentivoglio (ricco avvocato) e Margherita Buy (bella, e sentimentalmente inquieta, la cui interpretazione è ormai un clichè) e i più modesti genitori di Marta, Diego Abantantuono (un avventuriero dalle mille attività che si vanta di avere allestito una gelateria in Cecenia) e Carla Signoris (una borghese apparentemente spregiudicata) sono perplessi.
Il cuore del film è rappresentato da una cena che dovrebbe essere di fidanzamento alla quale, a seguito di un banale incidente stradale, viene invitato anche il nostro scrittore, ma che è invece l’occasione perché i due ragazzi si lascino, a seguito di un impertinente “outing” di Marta, mentre Vincenzo (Fabrizio Bentivoglio, come sempre intenso e misurato) e Diego Abatantuono (ormai istituzione del cinema d’Autore) si apprezzano e pongono le basi per una grande amicizia; questi due personaggi divengono fondamentali, e l’Autore assegna loro il compito di portare avanti un discorso quasi filosofico, un’amara riflessione sulla vita e sulla morte, che viene a ghermire Vincenzo, che si spegne serenamente.
Al funerale del marito, avvolta nel suo muto dolore Margherita è già proiettata verso una nuova vita.
Infine c’è la bella Caterina (Valeria Bilello), sensibile pianista ventisettenne, ma con un grave problema: ritiene di emanare cattivo odore, come a volte avviene alle rosse come lei: invaghitasi di Ezio, che a sua volta la ricambia, in un finale pirotecnico, quasi onirico, coronerà il suo sogno d’amore.
Il film, accompagnato per intero dalle canzoni di Simon & Garfunkel, strizza l’occhio ad un pubblico maturo, e rappresenta solamente una gradevole operina, durante la quale si ride simpaticamente a più riprese dei personaggi e della loro goffa vitalità; ha però atmosfere ed immagini insolite, soprattutto nella breve parte in bianco e nero, che racconta la vita di Milano di notte, ed è costruito su dialoghi per niente banali. Il lieto fine non disturba affatto la riuscita della pellicola; la sfida alla paura è vinta, i personaggi, chi in un modo, chi in un altro, trovano la loro dimensione di vita. Finalmente un film ”carino”, che non risulta irritante e che anzi, visto lo snodarsi della storia e la simpatia che esprimono i relativi personaggi, rappresenta una felice eccezione nel panorama dell’attuale deprimente commedia all’italiana. E’ bello poi poter constatare che il sodalizio umano ed artistico del Regista, di Abatantuono, di Bentivoglio, che dura dai tempi di Marrakesh Express e di Turnèresiste al trascorrere dei decenni, e si adatta al progressivo invecchiamento: prima si fuggiva da tutto, ora ci si vuole fermare, e nello stesso tempo si ha paura di farlo, per trovare quell’ubi consistam esistenziale che possa far superare l’eterno ed intenso male di vivere, così ben delineato in quei vecchi, magnifici films.

Recensione di Dark Rider

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