Gimme Danger, di Jim Jarmusch. Con Iggy Pop, Ron Asheton, Scott Asheton, Dave Alexander, Jim Ostenberg, James Williamson. USA, 2016 durata 108 min.
“Gimme danger, little stranger”. Il titolo del documentario sugli Stooges, ripreso da un loro pezzo dal terzo disco Raw Power (1973), sembra molto azzeccato per descrivere quello che c’è da aspettarsi da questa band. I quattro membri originali comparvero alla fine degli anni’60 per “spazzare via” la decade, come spiegato dallo stesso leader e cantante Iggy Pop in una delle interviste proposte nel documentario.
Una violenza musicale che fino ad allora non si era mai vista, e che darà origine e impulso al primo punk anni’70 (No Fun, tratta dal primo disco The Stooges (1969), sarà infatti un pezzo riproposto spesso dai Sex Pistols) e ispirazione, successivamente, a tantissimi gruppi (tra le tante cover di Search & Destroy, tratta ancora da Raw Power, possiamo qui consigliare quella dei Red Hot Chili Peppers). Un esplosione di colpi durissimi alla mente, all’anima e al corpo che però aveva origini salde: il decadentismo dei Doors e dei Velvet Underground (con questi ultimi hanno condiviso il violinista John Cale, anche produttore del loro primo album). Questi i miti che hanno contribuito a formare l’amalgama della band di Detroit. Che non aveva alcuna intenzione di contribuire all’ondata “flower power” dell’epoca, che Iggy nel documentario condanna fermamente come falsa e artefatta. Né aveva velleità squisitamente politiche come i concittadini MC5, altrettanto violenti ma con un messaggio più chiaro. Iggy chiarisce nel film che il loro “comunismo” era nei fatti della vita dei componenti della band, vissuta sempre insieme, ma non era né voleva essere propagandato come tale in relazione al più ampio movimento storico. Qualcuno li tacciava di nichilismo per questo. E ciononostante la loro frustrazione aveva qualcosa di socialmente simbolico, se pensiamo al presentarsi di Pop come “a world’s forgotten boy” nella fantastica Search and Destroy.
Jim Jarmusch era sicuramente la persona adatta per fare questo lavoro. Le sue opere sono spesso intrecciate con la storia del rock, se pensiamo per esempio a Daunbailò (Down by law) del 1986 dove, oltre a Roberto Benigni, era presente Tom Waits. E in un altro paio di sue opere Iggy Pop è stato già presente: in Dead Man del 1995 (con colonna sonora di Neil Young) e in Coffee and Cigarettes del 2003 (in due dei vari corti di cui era composto quel film: in una come protagonista e in un’altra come colonna sonora, con Down in the street dal secondo disco degli Stooges, Fun House del 1971).
Nel complesso, si tratta di un’opera molto interessante, ricca di interviste originali allo stesso Iggy Pop e agli altri musicisti che hanno contribuito all’avventura degli Stooges. Sicuramente Iggy è al centro della scena, come è anche lecito aspettarsi vista la sua fama, ma interessanti sono anche i racconti di James Williamson, chitarrista subentrato nel terzo disco e diventato successivamente ingegnere elettronico alla Sony. Le storie di altri elementi della band sono altrettanto degne di attenzione. Ron Asheton, componente del gruppo insieme al fratello batterista Scott, non era niente male come chitarrista (ruolo che ricoprì nei primi due dischi, per passare al basso nel terzo con l’ingresso di Williamson). Degli Asheton vengono raccontate alcune vicende, come del primo bassista Dave Alexander, che viene spesso incluso nel famoso 27 Club (i musicisti rock morti purtroppo a 27 anni). Le loro figure però rimangono un po’ sfumate rispetto alla stella di Iggy. Peccato poi che il lavoro sia un tantino carente dal punto di vista dei concerti live della band. I pochi inserti presenti sono tra l’altro facilmente trovabili anche su YouTube. Ma del resto è possibile che non sia facile affatto rinvenire filmati d’epoca buoni abbastanza da essere utilizzabili in un film, anche considerando che il successo presso il grande pubblico degli Stooges non è stato strepitoso nei primi anni dalla loro nascita. E questo, lo ribadiamo, nonostante l’enorme influenza successiva.
Sicuramente, nonostante qualche carenza, rimane un documentario destinato ad avere un posto rilevante nella grande videoteca del rock
recensione di Christian Dalenz