Fratellanza – Brotherhood, regia di Nicolo Donato, con Thure Lindharst, David Dencik, Nicolas Bro, Signe Egholm Durata 90 min. Danimarca, 2009
Quest’opera di indubbio interesse rappresenta l’esordio del regista danese di origini italiane Nicolo Donato, ed ha vinto la scorsa edizione del Festival del Film di Roma; essa merita di esere segnalata soprattutto per la tematica che affronta, in maniera certamente didascalica, ma abbastanza corretta: l’amore omosessuale nell’ambito di un gruppo neonazista danese.
Si racconta di Lars, militare di leva cui viene negata una promozione per presunta omosessualità e che lasciando l’esercito, pur senza il consenso degli anaffettivi genitori, si imbatte in un gruppo di estrema destra, il cui leader lo prende a benvolere poiché lo ritiene più intelligente della media, convincendolo a farne parte.
Lars viene assegnato allo skinhead Jimmy, che ha compito di addestrarlo ideologicamente, mentre ristruttura una casa che funge da covo sulle rive di un lago, ma tra i due scoppia un’intensa passione che li costringerà a mettere in discussione le loro convinzioni fino ad un drammatico finale.
Il film è ben costruito, le sequenze sono tipiche di certo cinema underground, volutamente spoglie, dai colori quasi sbiaditi: avvince non tanto per la storia d’amore tra i due gay, nata nel contesto più ostile che possa esistere, quanto per la sistematica descrizione della mentalità, degli atteggiamenti, delle ritualità del gruppo di militanti, inclini alla violenza, soprattutto contro i gay ed i diversi in genere, e dei meccanismi psicologici di massa che portano persone mediocri e deluse dalla vita ad improvvisarsi pericolosi attivisti politici.
E’ interessante il confronto dei caratteri: Lars (Thure Lindharst) è una specie di anarcoide frustrato dal fallimento delle sue speranze di carriera, mentre Jimmy (David Dencik) è un militante nazista imbevuto di delirio ideologico, e segnato dai tatuaggi stile Terzo Reich; improvvisamente e un po’ improbabilmente, scoprono di essere fortemente legati l’uno all’altro. Nel descrivere la relazione tra i due e le ineluttabili gravi conseguenze, il regista è un po’ scontato, ma nell’insieme, anche grazie alla buona recitazione dei principali personaggi, il film regge, rispondendo sia pure in parte alle ambizioni sociologiche da cui trae fondamento.
L’opera fa ripensare al bellissimo “The Believer” di Henry Bean, di qualche anno fa, che delineava con grande rigore etico e senso del pathos le gesta dell’ebreo nazista Danny, ma è sicuramente inferiore per lucidità descrittiva, pur rimanendo opera degna di nota.
Recensione di Dark Rider