Francesco Rosi, uno dei più grandi registi italiani di sempre, è scomparso a 92 anni, dopo una intensa vita spesa nella cultura e nell’impegno civile, che lo ha reso un testimone del nostro tempo, un intellettuale indomito ed antidogmatico, che sapeva scavare nella realtà contemporanea, e metterne in luce i lati più oscuri e contraddittori. Egli utilizzava il linguaggio filmico come inquietante e persistente ricerca della verità, al punto di diventare realmente “Maestro della denuncia”.
Animato da una forte passione cinefila, aveva sempre partecipato alle battaglie in difesa della cultura: ultimamente aveva appoggiato la rivendicazione dei ragazzi che a Roma lottano per tenere aperto il cinema America.
Il regista aveva iniziato i primi passi nel cinema grazie a Visconti, che lo volle sul set de “La Terra Trema”, e poi collaboratore alla sceneggiatura per “Bellissima”. Certamente questa prima esperienza neorealista lo segnò profondamente, anche se, in realtà, il suo cinema rigoroso e di impegno civile attinge a diverse fonti stilistiche, non ultima quella del cinema di denuncia americano. Cineasta “politico” per eccellenza, unirà spirito indomito e ribelle alla capacità di utilizzare lo strumento del documentario al fine di descrivere la realtà, creando capolavori come Salvatore Giuliano, Le Mani sulla Città, Il Caso Mattei, ove ricostruzione storica ambientale ed avvenimenti socio politici si armonizzavano mirabilmente.
Eppure, lui, così lucidamente razionale ed analitico, aveva anche un forte retrogusto per il realismo “fantastico”, per la fiaba adulta, come dimostrano molte sue opere, a volte, ma frettolosamente, etichettate come “minori”, come “C’era una Volta”, “Il Momento della Verita” o “Cronaca di una Morte Annunciata”.
Un cinema neorealista e popolare, colto, ed inquieto, così come dal punto di vista esistenziale era lui, costantemente lacerato dall’identità di una sinistra che vedeva perdere progressivamente la sua coscienza morale e culturale, che in lui restò sempre viva, e dal costante senso della morte, che si rispecchiava in tutte le sue opere. Fortemente legato alla città di Napoli, nel cui humus fervidamente intellettuale del dopoguerra si era formato, ne aveva introiettato la costante sofferenza ed il disincanto, pur mantenendo sempre un rigore morale ed una lucidità di analisi prospettica, di cui il suo cinema è ampiamente testimone.
La sua filmografia è ampia e variegata: la sua vera opera prima fu “La Sfida”, che conteneva in nuce tutte le tematiche che avrebbe affrontato nelle successive opere: una lucida indagine giornalistica che indagava nel mondo della criminalità organizzata in Campania, seguita da “Salvatore Giuliano”, dove veniva affrontato il tema del separatismo siciliano, fomentato, nell’immediato dopoguerra, dagli alleati e dai latifondisti dell’isola, e la stretta connessione che esso teneva con il banditismo, fino a portare il 1° maggio 1947 alla strage di contadini di Portella della Ginestra. Ma la figura del famoso bandito rimaneva avvolta nel mistero, il suo cadavere esposto non chiariva la genesi degli avvenimenti, e l’Autore non poteva che sottolineare l’inesplicabilità delle vicende e rassegnarsi (questo sarà punto centrale del suo cinema) al fatto che l’ambiguità umana risulta ontologicamente insuperabile, e la verità irraggiungibile.
Con “Le Mani sulla Città” (Leone d’Oro al Festival di Venezia nel 1963) realizzava un’opera di aspra, esemplare denuncia dell’alleanza stretta tra malaffare e politica, oggi così tragicamente attuale: nella figura dell’imprenditore Nottola che si faceva eleggere assessore ai lavori pubblici della città di Napoli, al fine di poter costruire un moderno quartiere, Rosi vedeva la rapacità, la corruzione, la vita politica mercificata, i patteggiamenti ed i compromessi tra le varie forze politiche, (cui si opponeva inutilmente un fervente esponente dell’opposizione di sinistra) pur dovendo riconoscere, suo malgrado, che lo sfrenato vitalismo dell’imprenditore corrotto era anche foriero di sviluppo.
Ne “I Magliari” Rosi affrontava anche la commedia all’italiana, sia pure in veste drammatica, con Alberto Sordi nella parte di un italiano in Germania, che cercava lavoro associandosi ai “magliari”, legati alla malavita.
“Il Caso Mattei”, con un superlativo Gian Maria Volontè, che interpretava un Mattei indimenticabile, e che da allora diventerà un suo attore feticcio, fu subito riconosciuto come un potente affresco storico politico, ove la biografia diventava cronaca, in uno stile che accomunava l’inchiesta televisiva e la narrazione drammatica. Su tutto l’inesplicabilità, l’ammissione che la realtà è indecifrabile, che la ricerca della verità impossibile. A chi dava fastidio il dinamismo petrolifero di Enrico Mattei? Il suo aereo, caduto a Bescapè fu sabotato?
Anche “Lucky Luciano”, ancora con Volontè, rappresentò uno splendido affresco di storia criminale, che mutuava la narrazione dai grandi film di denuncia americani. Altra figura inesplicabile, Lucky Luciano, che, inseguito dai servizi di mezzo mondo, non si lascerà mai incastrare, e morendo d’infarto all’aeroporto di Napoli, porterà i suoi segreti nella tomba.
Ma anche l’antimilitarismo, l’antiautoritarismo, il pacifismo che denuncia la follia delle guerre rappresenterà per Rosi un impegno morale: in “Uomini Contro” (tratto da Un Anno sull’altipiano, di Emilio Lussu) racconterà un tragico episodio della prima guerra mondiale, dove un ufficiale si ribellava al comandante che lo mandava al macello: per quest’ opera il regista fu anche denunciato per vilipendio.
“Cadaveri Eccellenti” fu un affresco Kafkiano sull’impenetrabilità ed il mistero del Potere, un apologo apocalittico e filosofico sulle tenebre dell’uomo. Numerosi magistrati venivano uccisi, prima in Sicilia, poi a Roma: l’indomito ispettore Rogas (un asciutto, essenziale Lino Ventura) indagava, convinto che si trattasse di un tentativo di complotto per stravolgere le istituzioni democratiche. Cercava anche l’alleanza con un giornalista free lance di sinistra suo amico, ma finiva ucciso quando sembrava vicino alla verità. E l’inquietante finale, che creò non poche polemiche a suo tempo, vedeva il dirigente del partito comunista, che, messo di fronte all’evidenza dei fatti, ricostruiti dal giornalista, che gli svelava il complotto, rinunciava, per timore, a tentare la scalata al potere, pronunciando la famosa frase, che parafrasava Gramsci: “La verità non è sempre rivoluzionaria”. L’incipit del film era magistrale e visionario: il primo magistrato che cadrà in un attentato faceva una passeggiata nella cripta del cappuccini di Palermo, ove vedeva una sequenza di mummie, che metteva subito a fuoco l’atmosfera funebre del film. Curiosamente, tre anni dopo, Werner Herzog, nell’incipit del suo capolavoro “Nosferatu Principe della Notte” utilizzerà un’analoga, sepolcrale sequenza con le medesime mummie.
Eppure Francesco Rosi aveva anche un’anima favolistica e fantasiosa, come dimostrerà nella fiaba barocca “C’era una Volta”, con Sophia Loren ed Omar Sharif, ed ancora divagherà nell’epica ne “Il Momento della Verità”, il dramma di un torero spagnolo che incontrava il suo inevitabile destino, non senza affrontare, con maestria, l’opera lirica, in “Carmen” tratta da Bizet.
E con due film splendidi, impregnati di toccante lirismo, ritornava alla sua sopita vena meridionalistica: “Cristo si è Fermato ad Eboli” ancora con un Gian Maria Volontè magistrale, profondo, meditativo, rappresentava uno splendido affresco tratto dal capolavoro di Carlo Levi, ove si raccontava di un medico pittore, che durante il fascismo, veniva mandato al confino in Lucania, entrando in contatto con un mondo sconosciuto e primitivo, e “Tre Fratelli”, dove il funerale della madre riuniva tre emigranti, che avevano scelto attività e vite totalmente diverse, nel Nord dell’Italia, e che ritrovavano drammaticamente a confronto con le loro radici negate.
Ma anche il realismo magico conquistò Rosi, in una affascinante, anche se discussa, versione filmica di “Cronaca di una Morte Annunciata”, lo splendido romanzo di Gabriel Garcia Marquez, per tornare poi all’impegno storico politico con “La Tregua”, che raccontava il viaggio di ritorno a casa di Primo Levi, dopo essere stato liberato dal lager di Auschwitz; il viaggio veniva descritto, con sommessa poesia, come ritorno alla vita, ad un nuovo inizio di un percorso di conoscenza di sé.
Fortunatamente questo grande Maestro, negli ultimi anni della sua vita ha potuto avere diversi riconoscimenti, tra cui un Leone d’Oro alla carriera a Venezia nel 2008. Una nuova prestigiosa generazione di registi italiani si considerano tutt’oggi suoi figli spirituali, ed hanno, a vario titolo, fatto tesoro dei suoi insegnamenti: Sorrentino, Garrone, Martone, Giordana, Tornatore. Ci mancherà il suo rigore analitico, la sua tensione ideale, la sua onestà ed il suo orgoglio intellettuale.
Dark Rider