Roma, Auditorium Parco della Musica, 9-17 novembre 2012
L’edizione 2012 del Festival del Film di Roma è stata la più contestata, gravida di polemiche, che non si sono spente neanche dopo la sua chiusura.
Affidata alla Direzione di Marco Muller, già responsabile per otto anni della Mostra del Cinema di Venezia, splendidamente guidata, bisogna dire, la rassegna romana ha puntato quest’anno, più che mai, sulla autorialità, riducendo al minimo, per problemi di budget le apparizioni dei divi sul red carpet, concedendo molto poco al “mainstream”. Una rottura con il passato, una vera ripartenza. C’è stato un netto calo di presenze rispetto all’anno passato, probabilmente anche per un sostanziale aumento dei prezzi dei biglietti per assistere alle prime e la percezione, anche visiva, del pubblico che ha partecipato alle performances, è stata egemonizzata dai cosiddetti “addetti ai lavori”, cioè cinefili e giornalisti, con netto calo della presenza popolare.
Ma per quanto abbiamo potuto riscontrare, a prescindere da tali considerazioni, è il livello medio delle opere ad averci lasciato perplessi: la rassegna ha presentato molti buoni films, insieme ad altri per la verità mediocri, ma non si sono viste opere memorabili, fatta eccezione per “Marfa Girl”, opera coraggiosa che ha vinto il Marco Aurelio d’oro.
Per di più, l’assegnazione di due premi minori a “E la chiamano estate”, film italiano molto controverso, soprattutto per i temi sessualmente scabrosi trattati, ha determinato una forte contestazione nei confronti dell’attrice Isabella Ferrari, che, francamente, ci è apparsa moralistica e capziosa.
Ma veniamo comunque alle opere che abbiamo avuto l’opportunità di visionare.
Il Canone del Male, di Takashi Miike, con Hideaki Ito, Fumi Nikaido, Shota Sometani, Kento Hayashi, Produzione: Giappone, 2012, 129 minuti.
Questo film del maestro giapponese Takashi Miike, che ha aperto la rassegna romana, per la sua terribile violenza, ed a tratti insostenibilità, sembra quasi voler rappresentare simbolicamente il passaggio dalla mostra glamour e con forti concessioni al “mainstream” della coppia Rondi De Tassis ad un cinema estremo, fortemente autoriale, quasi iniziatico di Muller.
Capace di cogliere come pochi altri le inquietudini del suo Giappone, il regista ci racconta la vicenda del professore giapponese nazistoide e fascinoso che stermina i suoi studenti, andandoli a cercare uno ad uno negli anfratti più nascosti della scuola di prim’ordine ove svolge il suo lavoro, con grande apprezzamento.
Il film narra la preparazione nel corso del tempo di questo piano di sterminio, l’apprendistato nell’uccisione dei genitori, e di alcuni serial killers che gli capitano a tiro, sino all’esplosione finale, nel nome di Odino, ove una pioggia di sangue colpisce una gioventù inerte, incapace persino di una minima reazione, che non sia solamente di stupore. Il regista, memore certamente delle rivolte studentesche giapponesi del sessantotto, vuole dare il segno del drammatico cambiamento dei tempi, memore di Colombine e di Utoya. La mattanza viene portata avanti con metodo, con fredda lucidità.
E questo il regista vuole descriverci: il mondo pervaso dal Male assoluto, la perdita della ragione umana, la sua inspiegabilità: la follia del professore esplode contro un mondo scolastico fatto di piccoli inganni, bullismi, ricatti sessuali.
Ma quest’angelo sterminatore, espressione di una violenza algida e robotica, non ci comunica una reale inquietudine, e la banale chiusura, che strizza l’occhio al Soprannaturale, e lascia prevedere un sequel, non convince, laddove “Elephant” di Gus Van Sant, attraverso la descrizione dei comportamenti omicidi dei protagonisti, era in grado di darci una mirabile lezione morale, e di parlarci del destino dell’America e del mondo. Queste inquietudini non le ritroviamo nel regista giapponese, la cui opera rimane un po’ fredda e non del tutto convincente, quasi come se, alternando dramma a momenti di commedia, forse per bilanciare la violenza visiva, volesse comunicarci che il film è solamente autoironico, e non va preso sul serio.
Alì ha gli Occhi Azzurri, di Claudio Giovannesi, con Nader Sarhan, Stefano Rabatti, Brigitte Apruzzesi, Marian Valenti Adrian, Cesare Hosny Sahran, Fatima Mouhaseb, Produzione: Italia, 2012, 99 minuti.
Un’opera intensa, dal sapore pasoliniano, questo Alì ha gli occhi azzurri, che il regista Giovannesi ha girato con spirito da antropologo, ispirandosi, per di più, a fatti realmente accaduti ai due ragazzi interpreti del film.
Si narra la storia di Nader, ragazzo egiziano, nato a Roma e di Stefano, il suo migliore amico: studenti sedicenni di Ostia, non a caso scelta dal regista per la sua spiccata natura multietnica, rapinatori a tempo perso, che poi si recano regolarmente a scuola. Nader ha una fidanzata italiana, Brigitte, causa di profondo dissidio con i genitori egiziani, che, sostanzialmente, persistendo lui nella relazione, lo invitano ad andarsene da casa.
Lui si allontana, ed inizia, tra la fame ed il freddo, un lungo percorso di iniziazione all’età adulta, costellato di gravi errori. Accoltella un rumeno in una discoteca, e quattro suoi amici lo braccano per punirlo. Viene aiutato dal suo amico Stefano, ma il sodalizio si interrompe quando quest’ultimo comincia a frequentare la sorella di Nader, anch’essa adolescente. Nader ha una reazione primitiva e violenta, non accettando per la sorella quella libertà che reclama per sé, e relegando sé stesso, forse, alla condizione di una drammatica solitudine, prima di tutto esistenziale. Per Nader non c’è una soluzione, c’è solo la consapevolezza della ricchezza delle proprie contraddizioni e la volontà di continuare un percorso di autoconoscenza.
Un’opera asciutta, essenziale, dal sapore documentaristico, caratterizzata da una splendida fotografia di Daniele Ciprì, che però, colpisce solo in parte il bersaglio: la descrizione dei problemi di una società multiculturale è accurata, ma i protagonisti sono troppo emblematici, e perciò scarsamente credibili.
Sembra più un’inchiesta televisiva, che un’opera degna del rigore pasoliniano. Manca poi, del tutto, il soffio della poesia del Maestro, che era in grado di descrivere le periferie romane mirabilmente, conferendo ai personaggi un afflato di aspra e lirica drammaticità. L’opera ha comunque dato lustro al cinema italiano, conquistando il Premio della Giuria della rassegna romana.
Steekspell, di Paul Verhoeven, con Peter Blok, Ricki Koole, Robert de Hoog, Gaite Jansen, Caroline Spoor, Sallie Armsen, Produzione: Paesi Bassi, 52 minuti.
L’olandese di Hollywood Paul Verhoeven, già autore del trasgressivo “Basic Instint” e del magnifico “Total Recall”, capostipite della fantascienza anni novanta, si presenta al festival con un mediometraggio, un’operina di stampo televisivo, sulfurea ed intelligente, ironica e graffiante. Essa è incentrata sulla figura di Remco, industriale fedifrago, e sulla sua famiglia formata da una moglie che apparentemente subisce (ma che si rivelerà vendicativa), figli inquieti e vagamente folli, colleghi di lavoro traditori. Le disavventure del protagonista, abbastanza esilaranti, ma con retrogusto amaro, tengono banco, in una sottile e brillante rappresentazione dell’ipocrisia familiare, che pone il film all’incrocio tra commedia di costume e soap opera intelligente.
Il film diverte, ha un ritmo serrato ed una struttura molto semplice, anche se in meno di un’ora si snodano numerose vicende, mettendo in evidenza come sotto l’apparenza della cordialità e del formalismo si nascondano personaggi tutt’altro che innocui e rassicuranti.
Nella conferenza stampa tenuta dopo la proiezione, Verhoeven ha raccontato come il film sia nato sul web; dopo la scrittura della sceneggiatura, si è chiesto al pubblico di utenti di completarla on line; essendo arrivate migliaia di trame, ne sono state selezionate 400, da cui vari spunti del film sono stati tratti.
Visto il successo ottenuto, la produzione sta vendendo il format per il mondo.
Carlo!, di Gianfranco Giugni, Fabio Ferzetti, Produzione, Italia, 2012, 75 minuti.
Questo bel documentario amatoriale ci descrive Carlo Verdone nel corso degli anni, attraverso spezzoni dei suoi films, attraverso i ritratti che fanno di lui gli attori che hanno interpretato i suoi personaggi, come Margherita Buy, Marco Giallini, ed altri, ed attraverso le sue parole che ci mostrano un personaggio complesso, tutt’altro che allegro e gioioso come molti dei suoi personaggi caricaturali.
L’opera rappresenta una dichiarazione di affetto sincero da parte degli autori del film, che ripercorre tappe della vita del regista e dei suoi films, sino all’approdo alla nuova opera di Paolo Sorrentino, “La Grande Bellezza”, che deve ancora uscire nelle sale, sul set del quale è nato un rapporto di grande stima tra lui, il regista, e Toni Servillo.
Ci sono immagini in super 8 che rievocano la sua giovinezza, il rapporto con i figli, l’amore per la musica rock, di cui è un grande esperto. Si diverte a ricordare le dolenti, meditabonde serate in cui ascoltava insieme ad essi David Sylvian e Scott Walter, sino al grande amore per Jimi Hendrix, ed i Doors, cui ha dedicato varii film.
Ne esce un bel ritratto del regista romano, divertente ed appassionato, ove lui stesso mette in luce le sue zone d’ombra, la sua latente depressione, ma anche la sua tenacia ed il suo amore per la vita: divertente il ricordo dei suoi attori che raccontano come quando, non appena arrivava sul set, la mattina presto, essi scoppiassero a ridere solo nel vederlo.
Verdone ci porta anche nella sua storica “Casa sopra i Portici”, dove ha vissuto tanti anni, a cui è molto affezionato, sulla quale ha scritto proprio quest’anno un bel libro così denominato, scritto in bella forma e quasi elegiaco, rievocando molti episodi belli, ma anche tristi della sua vita. Il film non rinuncia neanche a mostrare l’affettuosa stroncatura del suo cinema da parte di Goffredo Fofi, ed alla boutade con il padre Mario, valoroso studioso del cinema, che lo criticò in pubblico, per scherzo.
Un’operina delicata, divertente, un ritratto sensibile ed appassionato.
A Walk in the Park, di Amos Poe, con Brian Fass, Adam Davids, Mark Eberle, Fred Sullivan, Charles Breiterman, Produzione: U.S.A., 29012, 96 minuti.
Il leggendario regista newyorkese Amos Poe, già autore dei mitici “The Blank Generation”, carrellata sulla scena punk di New York allo stato nascente, e dell’allucinatorio “Alphabet City”, ritorna con un documentario a soggetto, che racconta il viaggio attraverso l’io contorto e allucinato di Brain Fass, direttore della fotografia in preda a grave forma di depressione e di abuso di farmaci.
Un itinerario psichedelico, di grande fascinazione visiva, intenso e disturbante, che alterna interviste con i suoi amici, e ricostruzioni di momenti della vita di Fass, rivisti oniricamente, a filmati dell’infanzia, a spezzoni di film famosi, come il ricorrente “Psycho”, il capolavoro hitchcockiano, ed alla descrizione del rapporto quasi incestuoso con la madre, sino alla immagine onirica del suo assassinio.
Il linguaggio filmico è visionario e allucinatorio, luci, suoni, colori si succedono, quasi a voler seguire il flusso caotico dei pensieri di una psiche malata, con effetto fortemente straniante per lo spettatore.
Si tratta certamente di un film estremo, che denota anche le numerose frequentazioni letterarie dell’Autore, dal David Foster Fallace di “Brevi interviste con Uomini Schifosi, a Rainer Maria Rilke, ad Alda Merini, a Friederich Nietsche, sino all’omaggio a Patti Smith, che interpreta intensamente White Rabbit dei Jefferson Airplane.
Un’intensa e caotica descrizione di un delirio psichico, un’opera disturbante, profondamente “underground”.
E la Chiamano Estate, di Paolo Franchi, con Jean-Marc Barr, Isabella Ferrari, Luca Argentero, Filippo Nigro, Eva Riccobono, Anita Kravos, Christian Burruano, Romina Carrisi, Produzione: Italia, 2012, 89 minuti.
Non meritava tutte quelle contestazioni, questo film di Paolo Franchi, che, per la produzione media italiana, è insolito e coraggioso, ed è certamente fuori dai canoni “mainstream”, anche se la narrazione non è lineare, e spesso involuta.
L’argomento è certamente scabroso e disturbante, rappresenta persino, ma senza compiacimento, scene di orge, ma questo, a nostro parere, rientra nei meriti del regista, che non ha voluto fare uno dei soliti film “carini”, che sono in gran parte la cifra stilistica di tanto cinema italiano.
Dino, anestesista a Bari (Jean-Marc Barr), pur amando la moglie Anna, non riesce ad avere rapporti sessuali con lei (una sensuale ed espressiva Isabella Ferrari): si rifugia, quindi, in caotici incontri con scambisti e prostitute, da cui esce con notevoli sensi di colpa, e senso di devastazione psichica. Si mette sulle tracce degli ex fidanzati di Anna, che si ritraggono sdegnati quando lui chiede loro di avere rapporti con lei.
Lei si strugge per l’assenza fisica del marito, lo attende per notti intere, fino a quando non lo tradisce con un ragazzo (Christian Burrano), rimanendone appagata, ma liquidandolo subito brutalmente. Il percorso di Dino è comunque segnato, l’anomalia del rapporto con la moglie, le sue ossessioni erotiche legate all’incapacità di proporre un modello di vita alternativo, lo porterà inesorabilmente verso l’autodistruzione.
Il film, dal punto di vista visivo, alterna una luce bianca abbacinante all’oscurità delle notti baresi, con effetti di straniamento. In certi momenti ricorda un Antonioni volto alla disperazione, o, se volessimo azzardare un paragone letterario, un Alberto Moravia privo di qualsiasi speranza. Vuole anche essere una specie di seduta psicoanalitica, ed in questo fallisce, perché verboso ed a volte scontato. Sin dall’inizio, che rievoca la splendida canzone di Bruno Martino, è presente l’acqua, ed il mare viene usato come simbologia, ed in esso si consuma la tragedia del protagonista.
Il film di Franchi è irrisolto, ma dolente, aspro, insolito, per nulla consolatorio, ed ha avuto il riconoscimento come miglior regia. Isabella Ferrari è bella, misteriosa e sensuale, e non riteniamo del tutto inappropriato il premio di miglior attrice conferitole, sospettando che dietro le tante contestazioni alla persona, avvenute in sede di premiazione, si nascondano mentalità sessuofobiche.
L’Isola dell’Angelo Caduto, di Carlo Lucarelli, con Giampaolo Morelli, Gaetano Bruno, Rolando Ravello, Produzione: Italia, 2012, 99 minuti.
Dispiace che la prima regia di Carlo Lucarelli, giallista ineccepibile, grande indagatore televisivo dei fatti di cronaca più sconvolgenti, non sia riuscita nel suo ambizioso tentativo di ridefinire il cinema di genere.
La sua opera prima si svolge in un’isola utilizzata come colonia penale, per il confino degli oppositori politici, nel 1925, durante il fascismo, dove la leggenda afferma che Lucifero, dopo la ribellione a Dio, sia precipitato.
Un commissario di polizia, da poco nominato, indaga su una serie di omicidi misteriosi: arriverà faticosamente alla verità, indagando negli ambienti della milizia fascista locale, ma sarà costretto ad un bivio: accettare la verità “ufficiale” del regime, e partire dall’isola, nella quale la moglie sta lentamente perdendo la ragione, barricata in casa, oppure dire la verità, e rimanere confinato.
Se anche alcune immagini sono visivamente affascinanti, e l’ambientazione conferisce al film una qualche connotazione di stampo “gotico”, nell’insieme il film risulta acerbo, sconnesso, e scarsamente credibile. Attendiamo Lucarelli ad una prova più matura.
Il Cecchino, di Michele Placido, con Daniel Auteil, Mathieu Kassowitz, Olivier Gourmet, Francis Renaud, Nicolas Briancon, Jerome Pouly, Violante Placido, Luca Argentero, Produzione: Belgio, Francia, Italia, 2012, 89 minuti.
Michele Placido sembra ormai specializzato nei polizieschi: dopo Romanzo criminale e Vallanzasca, si trasferisce in Francia e firma un polar di grande tensione ed efficacia, frutto di una coproduzione internazionale con un cast stellare, formato, tra gli altri, da Daniel Auteil, Matthieu Kassowitz, Luca Argentero. Il capitano Mattei (Daniel Auteil) si accinge ad arrestare una banda di rapinatori di banche, l’operazione sembra ormai riuscita, quando un cecchino dal tetto fa strage di poliziotti, consentendo ai complici di fuggire. Dal momento che uno di loro è gravemente ferito, si rifugiano presso l’abitazione di un medico complice, rimandando la spartizione del bottino.
Ma il capitano li bracca ferocemente, con estrema decisione, ed inesorabilmente, ad uno ad uno, incontrano il loro destino, fino alla resa dei conti finale con il cecchino, che egli sa responsabile della morte del figlio in Afghanistan.
Un film teso, avvincente, crudo e spietato, in cui vengono descritte persino le attività di un serial killer torturatore di donne, la cui conclusione lascia ben poche speranze, e ricorda, effettivamente, i grandi polar cui Placido si ispira, in particolare quelli del maestro Jean Pierre Melville. Resta debole la spiegazione “psicologica”, che spiega l’implacabilità del capitano Mattei contro la banda con il desiderio di vendetta per l’uccisione del figlio.
Suspension of Disbelief, di Mike Figgis, con Sebastian Koch, Lotte Verbeek, Rebecca Night, Emilia Fox, Frances de La Tour, Julian Sands, Kenneth Cranham, Produzione: regno Unito, 2012, 107 minuti.
Il confine tra verità e apparenza, tra sogno e realtà, tra fiction cinematografica e vita reale è la tematica di questo criptico film britannico, molto ben fotografato e con la salda regia di Mike Figgis.
Martin, professore universitario a Londra, scrittore e sceneggiatore, vedovo da dieci anni, attraversa un periodo di crisi creativa.
Alla festa di compleanno della figlia Sarah, promettente attrice, conosce l’affascinante Angelique, che ritrova subito dopo nella sua camera da letto, intenta a leggere una sua sceneggiatura.
L’indomani la ragazza scompare e viene successivamente trovata annegata in un canale; la sorella gemella Therese viene da Parigi; la ragazza ha l’aria di custodire antichi segreti familiari. Tra i due nascerà un’ambigua relazione fatta di sospetti reciproci, sino al chiarimento finale.
Il film è pervaso da una sottile inquietudine: Martin sta scrivendo la stessa storia che un regista sta già girando, la figlia Sarah interpreta un film la cui sceneggiatura è stata scritta dal padre, Angelique e Therese sono una lo specchio dell’altra, il mistero dell’una è speculare al mistero dell’altra. Con un’operazione intellettuale sofisticata Figgis porta a termine un’indagine di natura sottilmente psicoanalitica sulla mente umana, volendoci dire che realtà e finzione nel cinema si equivalgono e si confondono, e determinando in un affascinante gioco di specchi, quella sospensione dell’incredulità citata dal titolo.
Marfa Girl, di Larry Clark, con Adam Mediano, Drake Burnette, Jeremy St.James, Mary Farley, Mercedes Maxwell, Indigo Rael, Tina Rodriguez, Produzione, U.S.A. 2012, 106 minuti.
Questo film di Larry Clark, maestro underground di Gus Van Sant, mentore del grande fotografo e regista Harmony Coryne, autore di stupendi videoclip per i Sonic Youth e Cat Power, autore della sceneggiatura del suo “Kids”, si è rivelata la vera sorpresa del festival, ed infatti ha vinto il Marc’Aurelio d’Oro.
Marfa, cittadina texana al confine col Messico, già set de “IL Gigante” di Gorge Stevens, e di “Non è un Paese per Vecchi” dei fratelli Coen, è una cittadina che sembra vivere negli anni cinquanta: alle undici di sera c’è il coprifuoco per gli adolescenti, a scuola vigono ancora le punizioni corporali, la convivenza civile è intrisa di anacronistico razzismo, la polizia è violenta e discriminatoria.
Un gruppo di adolescenti passa le giornate a suonare, a fare sesso, a consumare droghe: in questo contesto assistiamo alla iniziazione sessuale di Adam, sedicenne mite, bianco – ispanico, che vive con la madre, e passa dalle braccia della fidanzatina Ines alla più matura donna, vicina di casa, che lo seduce. Nel frattempo un’altra ragazza più grande, una bella artista di passaggio a Marfa per una mostra, figlia di hippies, predica e pratica il libero amore, dispensando consigli sul modo migliore di vivere la sessualità. E nel film tutti i ragazzi praticano una sessualità vorace ed irrequieta, che per Clark rappresenta la condizione essenziale dell’essere giovani.
Un poliziotto razzista e violento, Tom, perseguita Adam e la madre, sino a quando la situazione precipita e la violenza scoppia, incontrollabile. Ma, superata questa fase drammatica, in qualche modo, la piccola comunità si ritroverà, la mattina seguente, ad ascoltare la predicazione new age di una saggia messicana.
L’opera è vivida, l’atmosfera carica di suggestione e di essenzialità, un classico film indipendente americano della migliore tradizione.
I giovani strimpellano offrendo musicalità punk hardcore acide ed ammalianti beat ipnotici (nei titoli di coda vengono citati i Therapy), la corporeità e la sessualità, come sempre in Clark, è insistentemente esibita, ma stavolta con minore compiacimento che nelle opere precedenti, come nel raggelante Ken Park.
E’ comunque un film divisivo: Clark, l’interprete aspro e brutale delle perversioni familiari e del disagio sessuale degli adolescenti, viviseziona esistenze estreme, al di là dei codici etici ed espressivi, ove la bellezza dei corpi, la ribellione, la morte diventano la rappresentazione delle paure e della rabbia di una generazione senza futuro. Ovviamente, raffinati intellettuali come Edgardo Cozarinsky e Jeff Nichols, presenti in giuria, non potevano rimanere indiffrenti.
Bullett to the Head, di Walter Hill, con Sylvester Stallone, Sung Kang, Jason Momoa, Christian Slater, Produzione: U.S.A., 2012, 92 minuti.
Walter Hill, geniale regista indipendente di action movie, come “Drive” o “I Guerrieri della Palude Silenziosa”, ritorna con questo teso ed avvincente thriller, tratto dalla graphic novel Du plomb dans la tete scritta da Matz, che, presentato fuori concorso, ha avuto un grande successo di pubblico.
Un sicario (Sylvester Stallone) ed un poliziotto di New York (Sun Kang) stringono una forzata alleanza per indagare su di un duplice omicidio: entrambi i loro partner di lavoro sono stati uccisi dal medesimo killer, che intendono ad ogni costo rintracciare.
Il sicario non si fida di nessuno, neanche del suo insolito partner, mentre il poliziotto intende arrestare la banda di criminali e, successivamente, anche il sicario. Il film racconta, tra molti colpi di scena le loro disavventure, i rischi che corrono. I due si salvano reciprocamente la vita, si minacciano, si ricattano, sgominano la banda di criminali, con una divertente complicazione finale: il poliziotto intreccia una relazione duratura con la figlia del killer, che deve rassegnarsi ad avere uno sbirro in famiglia. A parte il notevole tasso di violenza, peraltro giocata su una cifra stilistica di assoluto realismo, il film, costruito con grande sapienza dal regista, avvince, e Stallone sceglie la cifra ironica, rendendosi spesso divertente, in particolare negli scambi di battute con Sung Kang.
A Glimpse inside the Mind of Charles Swan III, di Roman Coppola, con Charlie Sheen, Jason Schwartzman, Bill Murray, Katheryn Winnik, Patricia Arquette, Produzione: U.S.A., 2012, 86 minuti.
Charles Swan III, grafico di successo, dongiovanni eccentrico e narcisista, nella trasgressiva e fantasmagorica Hollywood anni settanta, entra improvvisamente in una crisi profonda per il repentino abbandono della sua ultima compagna: tenta allora, goffamente e disperatamente di intraprendere una sincera autoanalisi per superare il senso di vuoto e di solitudine derivante dalla fine della relazione.
Il film di Roman Coppola racconta la sua disperazione sentimentale, il lungo viaggio nei ricordi d’infanzia, il peso e l’invadenza della famiglia d’origine, le precedenti relazioni sentimentali, il ruolo degli amici che lo sostengono con toni a metà tra la commedia brillante ed il musical hollywoodiano, con ampie citazioni cinefile, da Fellini a Woody Allen.
Il tono folle, scanzonato, a tratti elegiaco conferiscono all’opera seconda di Roman Coppola originalità e piacevolezza. Il ritratto scanzonato e grottesco della fantasmagorica Hollywood anni settanta è veramente originale: viene descritto con umorismo felice quel periodo di libertà intellettuale e sessuale, gli infiniti equivoci e disavventure sentimentali, le amicizie perenni che resistono alle traversie della vita, il clima di creatività sfrenato, tra splendore e malinconia.
Il protagonista, che perde l’unica donna amata, intraprende un viaggio introspettivo coadiuvato da bizzarri amici (eccellenti Jason Schwattzman e Bill Murray) con incursioni immaginarie nel cinema western, faticose sedute psicoanalitiche, sino al disperato incontro con l’amata, che nel frattempo ha una nuova vita sentimentale, che con pacatezza ed affetto, gli fa comprendere le ragioni del fallimento della loro relazione, ridandogli un po’ di serenità. Un film ironico, strambo, fortemente surreale: uno dei migliori presentati alla rassegna romana, che avrebbe meritato un riconoscimento.
Eterno Ritorno: Provini, di Kira Muratova, con Oleg Tabakov, Alla Demidova, Renata Letvinova, Sergey Makovetsky, Georgy Deliev, Natalia Buzko, Vitaliy Linetsky, Uta Kilter, Produzione: Ucraina, 2012, 114 minuti.
La valorosa regista ucraina, Kira Muratova, uno dei miti del cinema dell’Est, già autrice del bellissimo “Sindrome Astenica”, ha proposto un film singolare, girato in rigoroso bianco e nero. Un uomo ritorna dopo quindici anni nella città d’origine e va trovare una ex compagna di scuola, per chiederle consiglio circa la situazione sentimentale complicata che si è creato: è innamorato della moglie, ma anche di un’altra donna, e non sa come districarsi.
La donna reagisce con irritazione a questa intrusione non annunciata, di fronte a quest’uomo che le getta addosso i suoi problemi senza neanche chiederle come sta. Ciononostante prova a dare consigli, che l’uomo respinge sdegnosamente.
Questa scena si ripete numerose volte, con interpreti diversi, ogni volta le coppie cambiano, sono giovani, meno giovani, anziani, ricchi, poveri: le parole sono quasi identiche, le reazioni simili, in una sarabanda di personaggi e situazioni che ad un certo punto rischia di diventare stucchevole. Eppure il gioco è affascinante: i duetti tra i vari attori sono tutti eccellenti, e cambiano i toni della rappresentazione: si va dalla commedia al melò, alla storia d’amore, al grottesco, in un abile gioco di specchi.
Cambia scena, ora c’è il colore, due persone commentano le immagini, che appartengono ad un film incompiuto, in quanto il regista è stato ucciso, si cercano nuovi finanziamenti, l’affabulazione sembra inconcludente, senza una fine.
Il festival ha voluto rendere omaggio alla grande regista ucraina, che compiva ottanta anni, ma l’opera presentata non ci è sembrata tra le sue migliori.
L’edizione del festival del film 2012, al di là delle polemiche che lo hanno contrassegnato, e della svolta autoriale che lo ha caratterizzato, rimane un evento transitorio. Se il presidente Ferrari e Marco Muller vogliono davvero competere con il festival della Laguna, dovranno assolutamente elevare la qualità delle opere presentate.
Reportage di Dark Rider