Roma, Auditorium Parco della Musica, 28 ottobre-6 novembre 2010
Il Festival Internazionale del Film di Roma 2010 rimarrà negli annali soprattutto per le vibranti proteste effettuate da attori, registi e lavoratori dello spettacolo per i gravi tagli ed i disincentivi fiscali operati dal Governo. Nella serata inaugurale, infatti, sul Red Carpet si sono trovati a sfilare centinaia di persone del settore, tra cui lo stesso Presidente della Giuria Sergio Castellitto, conferendo all’evento una forte eco mediatica.
Per il resto, dobbiamo sottolineare la buona qualità delle iniziative culturali assunte dal Presidente Gian Luigi Rondi, decano dei critici italiani, e dalla Coordinatrice del Festival Piera De Tassis, che hanno ripresentato, nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantenario dalla sua uscita, l’inimitabile capolavoro di Fellini,“La Dolce Vita”, per l’occasione restaurato integralmente da Martin Scorsese, da sempre grande ammiratore del nostro cinema dei Classici e che ha ottenuto nuovamente un grande successo di pubblico.
C’è stato poi il costante omaggio ad Ugo Tognazzi, di cui sono stati proiettati prima dell’inizio di ogni proiezione, spezzoni di films. Per quanto riguarda le opere, dobbiamo dire che il percorso del Festival ci è sembrato un po’ contraddittorio, alternando buoni films ad altri piuttosto insignificanti.
Veniamo al dettaglio delle opere che abbiamo avuto l’opportunità di vedere.
Animal Kingdom, Regia DI David Michod, con Ben Mendelson, Joel Edgerton, Guy Pearce, Luke Ford, Jacki Weaver, Sullivan Stapleton, James Frecheville, Australia, 2010
Il folgorante debutto al cinema di David Michod, uomo di punta della new wave nel campo audiovisivo a Melbourne, costituisce la rinascita del Cinema Australiano; esso ha trionfato al Sundance Festival, conquistando il premio speciale della Giuria, ed è stato inserito fuori concorso al Festival del Film di Roma. Ispirato a fatti veri avvenuti nel 1988, il film racconta la storia dal punto di vista di un ragazzo di 17 anni, Joshua, che a seguito della morte per overdose della madre va a vivere dalla nonna Janine ed i suoi tre zii, Andrei, Darren e Craig, tutti criminali incalliti.
Pertanto viene rapidamente risucchiato in una spirale perversa di ritorsioni e vendette tra la banda criminale della famiglia Cody e la corrotta polizia di Melbourne, mentre il detective Nathan Leckie, avendo percepito che il ragazzo è vittima della situazione, cerca in tutti i modi di salvarlo, dandogli protezione; la resa dei conti familiare sarà però inesorabile.
Raramente abbiamo assistito ad un noir di tale potenza: la Famiglia Cody, vero branco di lupi agisce in un contesto sociale descritto con estremo realismo, mentre la sequenza di fatti di cronaca viene accompagnata da un commento musicale volutamente sopra le righe, che rende mirabilmente il senso di incombenza degli eventi.
Si determina pertanto un clima di forte tensione e lo spettatore avverte un certo senso di oppressione, soprattutto quando appare la spietata capo clan, quella Janine, gentile e melliflua, non priva di istinto materno nei confronti del ragazzo, ma alla quale, nei momenti decisivi, appare un diabolico lampo negli occhi.
L’ineluttabilità degli eventi drammatici ricorda la concezione del Fato espressa da uno dei personaggi di “Giungla d’asfalto” del grandissimo John Houston, anche se gli esiti risultano meno devastanti. Il film ha altresì il merito di non ricercare inutili spettacolarizzazioni della violenza, dalla quale comunque è sottilmente permeato.
Ed è appunto una giungla il mondo della malavita di Melbourne: le regole della famiglia Cody sono quelle della ferinità propria del mondo animale. Il regista mostra il mondo criminale della città australiana senza fascinazione, quasi col distacco dell’entomologo che studia gli insetti, ma dimostra qualche carenza nell’approfondiamento psicologico dei personaggi. Nel complesso si tratta però di un potente, drammatico affresco, quasi un apologo sulla sopraffazione umana.
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Haevnen (In a better world), regia di Susanne Bier, con Mikael Persbrandt, Trine Dyrholm, Ulrich Thomsen. Danimarca, 2010
Questo film della danese Susanne Bier ha ottenuto il Gran Premio della Giuria e possiede una grande potenza espressiva, ma non è immune da difetti. Vi si narrano due vicende parallele, quella di un medico idealista che presta servizio come missionario in un ospedale da campo africano, con matrimonio in crisi in Danimarca, e del figlio che subisce le angherie dei bulletti della scuola che frequenta, stringendo una pericolosa amicizia con un compagno di scuola, ragazzo emarginato anch’egli, in rabbia con il mondo per la morte della madre, ed in particolare con il padre, accusato di non aver fatto guarire la compagna.
Ben presto i due ragazzini, il cui rapporto è fortemente cementato dalla loro solitudine e fragilità, si mettono su di una strada pericolosa, e, animati dal desiderio di vendicarsi di torti subiti, finiranno coinvolti in un grave episodio di violenza, che però segnerà la svolta delle loro vite, mentre il medico pacifista sarà costretto a fare i conti con le contraddizioni del suo nobile pensiero, quando in un impeto di rabbia, causerà sia pure indirettamente la morte di un criminale nero sventratore di donne, che si era rivolto a lui per essere curato.
La regista ci delinea questo quadro di distorsione familiare e di disagio adolescenziale con notevole efficacia, inserendo nella narrazione elementi di tensione ed ambiguità, ma non riesce a centrare del tutto il bersaglio, in quanto l’opera risulta nel suo complesso fortemente didascalica.
Ciononostante, bisogna rilevare che la struttura melodrammatica risulta ben costruita, e gli attori tutti credibili. L’opera dimostra il talento registico della Bier, e la sua eleganza espressiva, che viene evidenziata dalle immagini che scorrono; funziona un po’ meno il racconto morale, in quanto i caratteri e le pericolose azioni dei due ragazzi sembrano un po’ scontati, come se la volontà di esprimere una tesi le avesse un po’ preso la mano.
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Poll (The Poll Diaries), regia di Chris Kraus, con Paula Beer, Edgar Selge, Tambet Tusk. Germania, Austria, Estonia, 2010
Alla vigilia della prima guerra mondiale, l’adolescente Oda fa ritorno nella tenuta di Poll, località posta ai confini tra Germania ed Impero Russo; sullo sfondo ci sono moti anarchici, ferocemente repressi.
Appena tornata a casa Oda si accorge che il padre, scienziato espulso dall’Ordine, in un laboratorio inaccessibile fa crudeli esperimenti sui corpi dei giovani uccisi, ed amministra la famiglia con spietatezza. Per spirito ribelle, oltre che per curiosità, ella concede ospitalità ad un giovane anarchico ferito, lo cura, lo assiste, impara a conoscere la sua filosofia esistenziale, così difforme dall’educazione ricevuta nella lontana Berlino. Si trova a convivere in una regione di confine, dove estoni, russi e tedeschi provano a coabitare non senza difficoltà ed infatti il 1914 spazzerà via per sempre tale delicato equilibrio. A contatto con l’orribile pre-nazismo del padre, la ragazza, di solida cultura umanistica, scopre con il giovane ferito il gusto della declamazione poetica, e impara a conoscere le idealità di trasformazione dell’uomo proprie del suo pensiero politico. Il film, ovviamente, avrà un finale tragico, ma Oda, attraverso il delicato rapporto che nasce con il prigioniero, avrà consapevolezza della sua natura di poetessa. L’opera possiede momenti di vibrante lirismo, e di tensione, ma è profondamente discontinua, e finisce un po’ per stancare lo spettatore, che pure ne apprezza la splendida fotografia, e la concezione umanistica di fondo.
Rappresenta comunque certamente un insolito e vibrante ritratto di quegli anni prebellici, e della genesi del morbo nazista.
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Mother of Rock: Lillian Roxon, regia di Paul Clarke. Australia, 2010
Questo suggestivo documentario del regista australiano Paul Clarke racconta la vita di Lillian Roxon, giornalista australiana, autrice della prima enciclopedia del Rock redatta negli anni settanta. La donna, femminista e libertina, dopo una vita di eccessi, morì a soli 41 anni, in solitudine, ma fu celebre per la stima che ebbero di lei Andy Wahrol, Iggy Pop (che nel film ne traccia un commosso ricordo) e molti altri musicisti ed artisti del tempo.
Il film attraverso la testimonianza di Iggy, di Alice Cooper e Germane Greer, che la conobbero ed alla quale più volte rilasciarono interviste, consente di ricostruire quella tumultuosa epoca, durante la quale molti intellettuali si avvicinarono al Rock, e, superati i vecchi preconcetti, ne definirono il ruolo di Arte. Attraverso immagini suggestive e piene di energia, ripercorriamo quegli anni di rivolta generazionale e di crescita scomposta della coscienza, attraverso le lotte sociali e culturali dell’epoca, di cui la Roxon fu autentica testimone, fino all’esplosione planetaria della nuova musica e della nuova cultura; le tappe della vita della giovane donna, le sue battaglie culturali, vengono narrate con affettuosa ironia. Lo stesso Regista, durante la conferenza stampa seguita alla proiezione del film, ha ricordato con commozione la figura di questa indomita e febbrile giornalista, coraggiosa ed ironica, cui le riviste di musica Rock specializzate, che ormai esistono in tutto il mondo dovrebbero rendere omaggio, come un’antesignana della loro essenza, la “Madre del Rock”, appunto.
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The Promise: The Making of Darkness on The Edge of Town, regia di Tom Zimny. Stati Uniti, 2010
La serata in cui è stata presentata l’anteprima di The Promise, inerente la genesi del capolavoro di Bruce Springsteen è stata il momento clou del Festival; Springsteen si è presentato in persona per assistere al film ed ha partecipato ad una lunga conferenza stampa dopo la proiezione.
Il documentario raccoglie le interviste recenti del Boss sulla genesi di quel fondamentale album che segnerà i suoi futuri percorsi artistici. Egli racconta l’ossessione creativa e la difficoltà a terminare l’opera, lo scarto di decine di brani (che saranno pubblicati in questi giorni in uno splendido cofanetto di tre cd e tre dvd, che contiene, oltre a tanti brani inediti, anche il film ), intervallate da immagini dell’epoca, girate nello Studio e nelle strade d’America.
Dal film, in bilico tra documento storico ed autobiografico, si evince la passione del Boss e della E Street Band, il loro smarrimento, la loro tenacia. Raccontando la genesi delle canzoni dell’album, Springsteen traccia un vero spaccato degli anni settanta e dell’America di allora, il Vietnam, di cui ancora si sentivano i devastanti effetti, la politica, i valori e la crescente identità della musica rock.
Tra l’entusiasmo di più di mille persone convenute, nella successiva conferenza stampa il Boss ha raccontato le difficoltà incontrate nel registrare l’album, le crisi creative, lo scarto di decine di brani, avvenuto tra lo sgomento dei compagni, il drammatico conflitto legale con il vecchio manager, la maturazione politica seguita alla fine della guerra del Vietnam.
Ha rievocato la figura dell’amato padre operaio, diventato quasi sordo per il lavoro in fabbrica, ha raccontato come sperasse di conquistare le ragazze facendo musica, con ironia e grande senso dell’umorismo. A chi gli aveva chiesto come passasse il suo soggiorno romano, ha risposto di divertirsi un mondo a passeggiare per le strade della nostra splendida città, ed ha formulato la promessa di tornare sul palco dell’Auditorium con una chitarra.
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Bei Mian (The Back), regia di Liu Bingjian, con Hu Bing, Xu Ning, Xu Chengfeng. Francia, Hong Kong, 2010
Questo inquietante film cinese parte da un riesame della figura carismatica di Mao Tze Tung e dei terribili effetti del suo culto sulla gente comune.
Vi si narra della sofferenza e dello straniamento psichico di un uomo che ha vissuto la sua adolescenza durante la rivoluzione culturale, i suoi enigmatici silenzi, il dramma interiore subito a seguito di una indicibile violenza paterna.
Con rapidi tratti viene rievocata la figura del padre, devoto al Grande Timoniere, specializzato in ritratti rappresentanti il leader; l’uomo, dispotico e crudele soggioga l’intera famiglia, utilizzando il culto di Mao come strumento di sottomissione. Si scopre che molti dei ritratti che portava a compimento erano effettuati con pelle umana. Da questo elemento trae lo spunto la drammatica crisi esistenziale dell’uomo, che sente tutto il peso della sua drammatica storia familiare, e ne viene lentamente annientato. Narrato come un Horror psicologico, dai lunghi silenzi ed introspezioni, il film vuole essere un’amara riflessione sui terribili effetti che le dittature hanno sugli uomini, ma il percorso è troppo insolito, e la descrizione orrorifica non trova la mano felice che, in argomento di mutazioni, avrebbe trovato un autore come Cronenberg. Tuttavia, pur con tutte le riserve del caso, l’opera possiede dei nobili intenti ed ha il merito di non proporli affatto in maniera didascalica. Nel peregrinare del protagonista, che fugge da sé stesso e dal proprio passato, c’è il tentativo più o meno consapevole di cercare un posto dove vivere nella Cina di oggi, che ha sostituito il culto dei leader comunisti del passato con la devozione al Dio denaro.
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Kill me Please, regia di Olias Barco, con Virgile Bramly, Aurelien Recoing, Benoit Poelvoorde. Belgio, 2010
Quest’opera, vincitrice del Marco Aurelio d’oro è una corrosiva e delirante dissertazione sulla morte fotografata in uno splendido bianco e nero.
Con potente ironia il francese Barco racconta della clinica della “buona morte”, diretta dal Dottor Kluger, impassibile ed affabile, che seleziona gli aspiranti suicidi che, con le più varie motivazioni, si presentano da lui. Essi sono per lo più depressi cronici, falliti, malati terminali, bancarottieri e cialtroni che vogliono farla finita, e che pagano fortune per morire, fruttando allo stato tasse e risparmi cospicui. La cifra narrativa è ferocemente grottesca, gli attori fanno del loro meglio per rappresentare al meglio l’humor nero che permea il film, degno di un Marco Ferreri più dark. Quando alla fine gli abitanti della zona decidono di assaltare armati la clinica, inizia un gioco al massacro, delirante e perverso, che non lascia sopravvissuti, in un trionfo della morte che trova il suo compimento con la cantante lirica transessuale che si esibirà nella “Marsigliese”, ultimo desiderio prima della fine, per noi, il pubblico in sala, chiudendo la perturbante farsa.
L’umorismo di Barco è fortemente isterico e trasgressivo, il film ricorda certi capolavori underground degli anni sessanta, e appare pervaso di un nichilismo pungente ed irrisorio, anche se un pò fine a sè stesso. Rappresenta in ogni caso un’opera certamente originale ed a suo modo sperimentale, insolita nel panorama cinematografico contemporaneo, che sembra bandire opere così fortemente iconoclaste come questa che arriva al punto da mettere in discussione il valore sacrale della vita umana. Lo spirito dell’opera è profondamente “punk”, e ci ricorda, per certi versi, gli stilemi di certo cinema d’avanguardia statunitense, come quello perverso ed estremo di John Waters o di Richard Kern e Nick Zedd. E’ comunque un’opera ben costruita e sicuramente non priva di una certa originalità, che spezza decisamente una lancia in favore dell’eutanasia.
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Pete Smalls id Dead, regia di Alexandre Rockwell, con Peter Dinklage, Mark Boone Jr, Steve Buscemi, Tim Roth. Stati Uniti, 2010
Amabilissimo ed ironico, Alexandre Rockwell, icona del cinema indipendente statunitense degli anni novanta, insieme ad Hal Hartley, Jim Jarmusch e Spike Lee, ha intrattenuto a lungo il pubblico e la stampa in un bellissimo incontro. Ci ha parlato della difficoltà di essere Autore indipendente e fuori dal mainstream, della straordinaria creatività e vitalità di quel cinema, rievocando i tempi del memorabile “In the Soup”, che appunto raccontava dell’indipendenza di certo Cinema, e delle sue difficoltà di sopravvivenza. Ha rievocato la sua amicizia con Nanni Moretti, per il quale recitò con l’allora compagna Jennifer Beals in Caro Diario, e confessato la sua ispirazione in Cassavetes.
Il film da lui presentato al Festival è estremamente godibile, infarcito com’è di gags esilaranti.
Vi si narra la storia di un noto regista hollywoodiano, Pete Smalls (Tim Roth) che improvvisamente muore.Il suo vecchio amico K.C. Monk, regista indipendente, in depressione per la morte della moglie, viene chiamato per accorrere a salutare il vecchio compagno, dimenticando il rancore di un tempo. Durante il viaggio incontra numerosi personaggi stralunati. Ma il più geniale è l’attore nano Peter Dinklage, sul quale si basa la dinamica del film. Attraverso trovate esilaranti, il regista traccia un doloroso e divertito discorso sul passato, pieno di citazioni coltissime (da Fellini a Wenders), ma che parla anche al presente. Confusa ed un po’ disordinata, la pellicola ha un grande scatto nel finale, quando il nano si riscatta nell’amore con Saskia, con la quale, nella bellissima scena conclusiva, si allontana mano nella mano. K.C. si innamora della ragazza e Alexandre Rockwell si ritrova, nonostante tutto, innamorato del Cinema. Nel film appare il gotha del cinema indipendente, da Steve Buscemi, sempre eccezionale, a Tim Roth, e l’effetto è sempre oltremodo spassoso.
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Rabbit Hole, regia di John Cameron Mitchell, con Nicole Kidman, Aaron Eckhart. Stati Uniti, 2010
Concludiamo la nostra Rassegna con questo piccolo film sul dolore per un lutto, ove viene raccontata una matura coppia che ha perso un figlio di quattro anni, investito da una automobile guidata da un ragazzo. Per cercare di reagire alla crisi che li attanaglia, e li distrugge, portandoli alla deriva, i due coniugi accettano senza successo di frequentare un gruppo di autoaiuto.
Nel frattempo i rapporti tra i due si deteriorano ed essi arrivano ad un passo dalla rottura. Lei, madre distrutta dal dolore, è sempre più intollerante ed aggressiva con il marito. Ma l’esperienza ed il buon senso li salveranno e lentamente ritroveranno la loro quotidianità. Il film vale solamente per l’interpretazione della Kidman e di Eckart, notevoli. Ma è un po’ stantio nelle problematiche, già viste molte volte. Lo spettacolo comunque nel complesso regge, la tensione drammatica tutto sommato c’é. Molto bello il rapporto che si crea tra la Kidman ed il giovane, involontario investitore, che tra l’altro, risulta un eccellente disegnatore di fumetti, che crea delle bellissime e filosofiche storie di fantascienza.
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Arrivato al quinto annno e costellato di alti e bassi, il Festival si è permesso di far vincere un film assolutamente fuori dalle righe per originalità e drammatico impatto visivo. Stavolta un premio ad un italiano è stato comunque ottenuto, con il grande Toni Servillo, per Una Vita Tranquilla. Siamo convinti che una scelta di film nel complesso più oculata potrebbe portare la Rassegna a fare quel salto di qualità che la crescente partecipazione del pubblico si aspetta.
Reportage di Dark Rider
Foto di Lovely Rita
[…] sono con te”, il nuovo film di Guido Chiesa in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma 2010, è dedicato alla figura della Madonna e la racconta da un punto di vista inedito e illuminante: […]
ma lo avete visto kill me please?il film che spezza una lancia a favore dell’eutanasia????ma se scrivere su un giornale su un blog da una minima responsabilità è solo quella di vedere un opera. se l’aveste vista non avreste scritto quella recensione
A me invece la recensione sembra calzante, ovviamente non sono d’accordo su tutto quello che scrive l’autore. Anche io l’ho trovato delirante (ricordava un pò i Cohen di Non è un paese, fors’anche per il b/n). La frase sull’eutanasia non mi trova concorde, mi sembra un pò fouri contesto.
Trovo lodevole lo sforzo degli autori di seguire e di commentare quante più pellicole possibili di questa rassegna. @Giovanni In generale non amo da parte di noi lettori le critiche non argomentate anche su articoli oggettivamenti mediocri (non è questo il caso) che si trovano in ogni dove nel web