Mag 262012
 

Cosmopolis, di David Cronenberg, con Robert Pattinson, Paul Giamatti, Jay Baruchel, Kevin Durand, Juliette Binoche, Samantha Morton, Mathieu Amalric, Sarah Gadon.
Musiche: Howard Shore. Canada/Francia/Portogallo/Italia, 108 minuti.

★★★☆☆

David Cronenberg, regista canadese geniale e tenebroso, è autore di capolavori come “Videodrome”, allucinatorio film ove racconta come la schiavitù nei confronti di una tv che trasmette solamente sesso e violenza generi in un uomo un tumore al cervello che, a partire da lui, determina l’avvento di una terribile mutazione genetica dell’umanità, portando alla nascita di una “Nuova Carne”: l’interrelazione e la fusione dell’uomo con il mezzo televisivo, vista come supremo male dell’uomo, quasi prefigurando le attuali alienazioni. Il tema viene ripreso, con diverse modalità, ne “La Mosca”, la progressiva, visivamente insostenibile mutazione di uno scienziato che a seguito di un tragico esperimento di teletrasporto diviene un uomo-insetto. Nel bellissimo “Inseparabili” l’Autore affronta magistralmente il tema dell’io e del suo doppio, descrivendo la drammatica storia dei fratelli Mantle, ginecologi di successo, che si autodistruggono, arrivando alla decomposizione prima psichica e successivamente fisica per amore di una donna, che devasta le loro vite. “Crash”, tratto dal racconto di James Ballard, descrive un gruppo di persone che ricerca spasmodicamente l’incidente automobilistico, come una attraente e perversa opportunità di piacere sessuale, mentre “La zona Morta”, narra le vicende di un uomo che, a seguito di un incidente quasi mortale, a causa di una mutazione cerebrale, riesce a prevedere un allucinante futuro totalitario e si prodiga spasmodicamente per scongiurarlo. Ne “Il Pasto Nudo”, da William Burroughs, egli riprende genialmente le tematiche della “Beat Generation” trasfigurandole nella visionaria mutazione dei corpi e delle menti. In “EXistenZ”, descrive un gioco tragico e perverso della realtà virtuale, connesso alle mutazioni indotte al sistema nervoso umano.
Ma ancora molte altre sue opere, come “Spider” vivisezionano tragicamente il rapporto tra normalità e follia, sino al recente “A Dangerous Method”, che rappresenta una mirabile anche se un po’ calligrafica rilettura del triangolo intellettuale ed amoroso tra Freud, Jung e Sabina Spilrein.
Il talento visionario di questo grande regista ci offre ora l’inquietante “Cosmopolis”, reduce dal successo ottenuto al Festival di Cannes 2012, tratto dal bel volume di Don De Lillo, quantomai attuale.
Siamo nell’aprile 2000, in una New York totalmente bloccata nel traffico dalla concomitanza della visita del Presidente degli Stati Uniti, dal funerale di un famoso rapper nero e da furenti dimostrazioni di protesta no global, una enorme limousine bianca procede a rilento.
All’interno lo squalo della finanza Eric Packer (Robert Pattinson), vuole, testardamente, recarsi dall’altra parte della metropoli per un taglio di capelli; nella ipertecnologica vettura, piena di computers, egli segue gli andamenti della Borsa, ed assiste con profonda inquietudine alle impreviste variazioni dello yuan cinese. Egli sta recandosi a Hell’s Kitchen dalla parte opposta della metropoli, il luogo più malfamato. Algido, altero, silenzioso, il miliardario appare del tutto indifferente alle manifestazioni dei no global in cui si imbatte, le cui urla gli arrivano ovattate.
Cronenberg riprende abbastanza fedelmente l’omonimo, apocalittico, postmoderno romanzo di De Lillo, ove con enorme preveggenza viene descritta la fine di un’epoca, contrassegnata dal turbocapitalismo, caratterizzato dalla spietata finanza che oggi abbiamo imparato purtroppo a conoscere, capace di determinare la vita e la morte di interi paesi, con le conseguenti rabbiose rivolte che dilagano.
L’Autore ci descrive il viaggio verso l’autoannientamento di quest’uomo potente, chiuso nella sua limousine dove fa sesso, riceve ospiti, fa check up medici, discute di filosofia, tratta affari e dalla quale scende raramente per brevi soste, nel tentativo di sedurre la moglie che visibilmente lo sfugge, presa da contorte riflessioni esistenziali che a lui appaiono incomprensibili. Pervaso da un impalpabile senso di autodistruzione, quasi consapevolmente, compie il suo ineluttabile cammino verso la morte, verso il killer che sa già che lo sta aspettando e che anzi va a cercare nei bassifondi, per dare una spiegazione innanzitutto a sé stesso dell’abisso che è in lui. Alla fine lo troverà, è un ex suo dipendente (Paul Giamatti, strepitoso), che in un lungo e concitato monologo gli spiegherà come, rappresentando un simbolo del degrado dei valori umani e sociali, egli si ritenga investito della suprema missione di ucciderlo.
Il film sottolinea con tratti brevi e sapienti la crescente incomunicabilità del protagonista con il mondo esterno. Il viaggio verso l’abisso di questo uomo cinico e perverso, anaffettivo, totalmente preso da sè stesso e dai suoi computers, che ad un certo punto non trova di meglio che uccidere il proprio autista per noia, è rappresentato con lucido distacco.
L’opera è complessa e cerebrale, necessita di una lettura attenta e determinata; i dialoghi verbosi la appesantiscono un po’, ma il genio visionario di Cronenberg risalta ancora: l’apocalisse esterna alla limousine, descritta con toni rapidi ed efficaci, trova riscontro in quella interna del protagonista, in preda ad un profondo ed allucinato istinto di morte. Pattinson, l’etereo interprete di “Twilight” è perfetto nella parte di un moderno vampiro.
Se quindi tutto il cinema di Cronenberg va letto alla luce del concetto di virus, visto nelle sue varie fasi, il contagio, l’incubazione, la manifestazione di esso ed infine il progressivo, allucinatorio percorso verso lo shock della morte, rappresentata soprattutto nelle prime opere come mutazione genetica, trasformazione della materia corporea che diviene la “Nuova Carne”, in una sfida trasgressiva alle convenzioni della visione, che diventa sempre più estrema ed insostenibile, nella sua ultima opera trattiene le sue tematiche nell’esplorazione del detto e del non detto, nella follia inespressa dei volti, nell’affabulazione e nell’ansia dell’autoannientamento, che deriva dalla progressiva perdita di senso del sé.
Si tratta di un cinema essenzialmente postmoderno, che descrive, con una lucida metafora, la nostra epoca, continuamente attaccata da “virus” patogeni come l’Aids, o persino economici, che determinano la vita e la morte delle persone, in un incubo costante e claustrofobico.

Recensione di Dark Rider

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