Dic 042017
 

Borg McEnroe, regia di Janus Metz Pedersen – con Sverrir Gudnason, Shia LaBeouf, Stellan Skarsgård, Tuva Novotny, Ian Blackman. Svezia, Danimarca, Finlandia, 2017, durata 100 minuti.

★★★½☆

borg mcenroeBorg vs McEnroe, ovvero lo stesso punto di contatto tra un ombrello e la macchina da cucire di lautremontiana memoria. In apparenza. Già, perché le differenze tra il campione scandinavo stiloso ed algido che rivoluzionò il tennis, ed il bad boy americano irascibile e stizzoso sembrano in realtà assai meno marcate di quanto narrato in seguito dagli scribi di settore. Ed il film di Janus Metz colpisce esattamente nel segno, ricostruendo una rivalità durata il breve volgere di un biennio ma divenuta epocale, sintomo dello scontro tra due atleti in grado di riscrivere i dettami di uno sport che usciva definitivamente dalla nicchia popolana ipotizzante il tennis come sorta di hobby per ricchi dai conti correnti a molti zeri, decisi unicamente a sfuggire dal tedio della vita mondana. Difficilmente le pellicole a carattere sportivo riescono a centrare un qualche bersaglio comunicativo, spesso si cade nel ridicolo e raramente il messaggio “dice” effettivamente “qualcosa” (è il caso di Fuga per la vittoria, ma siamo su un altro pianeta). In questo caso, la struttura di taglio documentaristico giova all’ elaborato, sfornando un biopic che in verità pende in maniera piuttosto sbilanciata sul versante Borg, tratteggiandone l’insicurezza e le paranoie scaramantiche, utilizzando sovente numerosi flashback volti a ricordare allo spettatore quanto il campione svedese, ad inizio carriera, fosse tutt’altro che il prototipo del robot glaciale divenuto vero e proprio marchio di fabbrica, ossia quello stesso individuo che in campo sembrava a proprio agio tanto quanto nel giardino della propria abitazione. Metz non ammorba lo spettatore con pleonastici scambi da fondo o panoramiche su prime di servizio e consimili, ma preferisce utilizzare il ralenty per enfatizzare volti e reazioni dei due protagonisti, affiancando allo scoramento del Borg campione in carica e divorato dall’ ansia da prestazione, lo spettinato John McEnroe astro nascente del 1980, rissoso e bizzoso con giornalisti e giudici di sedia, sicuro di sé fino alla spacconaggine, pronto a tutto pur di arrivare a sollevare il trofeo sull’ erba londinese a discapito del proprio mito di gioventù, riuscendo nell’impresa di minarne crismi e sicurezze, spingendosi (quasi) fin dove nessuno era riuscito nel lustro precedente. Borg McEnroe non è in realtà un film sul tennis. Almeno, non solamente. E questo resta il suo merito principale. L’incipit d’apertura è affidato ad una frase di Agassi, colui che attraverso la propria, bellissima biografia Open, è riuscito a raggiungere i cuori e le menti di un pubblico assai più numeroso e diversificato in rapporto all’ appassionato di tennis convenzionale. Esattamente come Agassi in seguito, Borg contribuì in maniera immanente a far decollare l’interesse verso il tennis stesso, grazie alla sua irresistibile ascesa ed alla granitica sequela di vittorie e record macinati in una carriera breve (si ritirò ad appena 26 anni) ed irripetibile, portando sul rettangolo la sua capigliatura lunga e ribelle, il gioco aggressivo da fondo campo e riuscendo a trionfare cinque volte consecutivamente a Wimbledon come nessuno aveva mai fatto prima (e per eguagliarlo ci vorrà Federer, ma è un’altra storia…). Ecco, quindi, che la rivalità con il mancino alfiere del serve & volley statunitense, tanto nevrotico quanto “sul pezzo” in campo, esula dal semplice concetto sportivo. I due caratteri a confronto, apparentemente contrapposti, in realtà sembrano sovrapporsi per identità di vedute: entrambi concentrati ossessivamente sul risultato finale, combattono le stesse ansie (ad esempio i media) ma utilizzando metodi difformi. Borg ha infatti imparato ad incanalare le energie nel corso degli anni, in pubblico non mostra emozioni mentre nel privato è spesso intrattabile ed insicuro (vedi il rapporto con futura moglie e manager), mentre Mc Enroe sfoga la propria rabbia senza reticenze e sfidando qualsiasi interlocutore (compresi giudici e giornalisti) con la spocchia del ragazzo che vuole conquistare la vetta del mondo. La descrizione della storica finale del 1980 riempie la parte conclusiva, grazie ai momenti salienti raccontati con puntiglio, ricordando agli appassionati di settore lo storico tie-break del quarto set conclusosi 18-16 in favore dell’americano, prima del trionfo numero cinque di Borg sull’erba londinese certificato dall’8-6 definitivo sancito al quinto set. Sorretto da un ritmo brioso, Borg McEnroe si avvale della recitazione perfettamente in parte degli interpreti, da uno Shia La Beouf scanzonato nei panni di McEnroe all’ottimo Sverrir Gudnason che impersona il mito sportivo vivente di Svezia, sviscerando nel centinaio di minuti di programmazione la storia di due ragazzi straordinari con la racchetta in mano, rivali in campo ed in seguito grandi amici nella vita, schiavi della propria passione e gravati dall’onere riservato ai predestinati ai quali il la sorte decide di affidare le chiavi (ed il talento) per riscrivere la storia di un determinato sport. Ma soprattutto, Borg McEnroe ricostruisce una personalità affascinante ed enigmatica come quella di Bjorn Borg, estraendolo dal contesto di uomo impassibile ed atarassico e ponendone in risalto limiti ed insicurezze, senza scadere nel patetico ma gettandone alle ortiche la maschera da ragazzo sicuro ed imperturbabile e rendendo invece il ritratto di un giovane (ma già vecchio) di ventiquattro anni in preda ad un’ansia da prestazione ai limiti dell’ingestibile. Non è un caso, che Borg abbia chiuso con il tennis a soli ventisei anni dopo aver vinto undici (!) slam. Era giovane, ma aveva dato troppo. Probabilmente tutto.

Recensione di Fabrizio ‘82 

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