Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve, con Ryan Gosling, Harrison Ford, Dave Bautista, Robin Wright, Jared Leto, Ana de Armas. GB/Uda/Canada, 2017, durata: 163 min.
Quando uscì, nel 1982, Blade Runner di Ridley Scott rappresentò una rivoluzione visiva e percettiva; un’opera mai vista, destinata a diventare, nel corso del tempo, una delle più importanti della storia del cinema, ad entrare direttamente nel Mito. Philip Dick, autore del libro da cui era tratto il film, “Do Androids Dream of Electric Sheep”, a seguito di quest’opera, venne considerato uno dei più importanti, visionari autori, anticipatori della realtà virtuale e dei suoi molteplici mondi.
Fondatrice dell’immaginario postmoderno l’opera di Ridley Scott ha una trama semplice: All’inizio del XXI secolo la Tyrell Corporation crea una forma di robot della fase NEXUS, esseri virtualmente identici agli umani, definiti “replicanti”. Di questi, la categoria “NEXUS 6 è formata da androidi superiori in forza ed agilità, e pari per intelligenza agli ingegneri genetici che li hanno creati. Utilizzati per lavori pericolosi e colonizzazione ed esplorazione di pianeti sconosciuti, ad un ceto livello, la loro maturazione li porta alla ribellione in una colonia spaziale. Per questo squadre speciali di polizia, nel 2019, vengono incaricati di eliminarli, in gergo “ritirarli”.
L’ex poliziotto Rick Deckard rientra in servizio per ritirare dalla circolazione due uomini e due donne “replicanti”, programmati per vivere 4 anni; da questo semplice assunto trae vita il capolavoro di Ridley Scott, che narra la vicenda del cacciatore di replicanti, della sua dura battaglia per sterminarli. Tutto ciò in una atmosfera mirabilmente “noir”, in una Los Angeles futuribile, buia, oscura, brulicante di persone, desolante ed anonima, una città senza speranza, dove l’umanità appare rassegnata e sconfitta, e dove risuonano, improvvisi gli atti di violenza contro gli androidi. Il tutto, in una atmosfera straniante e suggestiva, a suo modo solenne e malinconica, dove l’eleganza delle immagini, ed il loro superbo impatto visionario donano al film una oscura, strana fascinazione. Rick Deckard, interpretato da Harrison Ford, rappresenta una figura di detective dolente, crepuscolare, marlowiano, che si innamora di una replicante, Rachel (Sean Young), non consapevole di essere tale. Altro personaggio iconico è il replicante Roy Batty, interpretato da Rutger Hauer, che nel suo celebre monologo, poco prima di morire, esprime la filosofia del film, l’anelito alla vita umana di chi ha vissuto esperienze inenarrabili e sa di essere stato solamente strumento degli umani. Egli, dopo aver salvato da morte certa Deckhard, dà una lezione etica al detective, rivelando un senso di umanità profonda. Ed il regista, in un finale alternativo, tratto dal suo “Director’s Cut” del 2007, ci induce a ritenere che lo stesso Deckard sia un replicante.
La leggendaria opera di Ridley Scott contribuì a ridefinire anche in campo cinematografico una estetica “cyberpunk”, che negli anni immediatamente successivi si espresse nell’ambito letterario con autori come William Gibson (Neuromante) e Bruce Sterling (La Macchina della Realtà), che integravano la nascente dimensione virtuale con elementi della cultura underground, che negli Stati Uniti era allora estremamente viva, delineando tratti di nobiltà letteraria che traevano la loro origine in Aldous Huxley (Il Mondo Nuovo), George Orwell (1984), ed in William Burroughs (Il Pasto Nudo), mentore trasgressivo, allucinatorio della “Beat Generation”.
Il film di Villeneuve, rispettoso dell’originale, avvalendosi della sceneggiatura di Hampton Fancher (già presente nell’opera precedente, insieme all’Autore) e Michael Green, ne trae spunto, confermando la tematica della caccia ai replicanti da parte di un nuovo Blade Runner, l’agente K (un sobrio, intenso Ryan Gosling), incaricato di terminare quelli di precedente generazione, che non intendono essere eliminati, e sognano una vita “umana”, ma segue una sua strada che lo conduce in una sorta di oscura vertigine “filosofica”.
Che nelle intenzioni dell’Autore ci fosse l’idea del legame con il precedente film, è dimostrato dai tre corti di passaggio che egli ha commissionato ad autori da lui stimati: in questi corti si presentano personaggi, come il primo replicante ribelle, Sapper Morton, che sarà affrontato da K (2048: Nowhere to Run) e la figura del visionario magnate Niander Wallace, interpretato da Jared Leto (2036: Nexus Down), creatore della nuova generazione di replicanti, ancora più perfetti, entrambi di Luke Scott, figlio di Ridley, e poi “2022: The Black Out” di Shinichiro Watanabe, che descrive la rivolta dei replicanti, ed il conseguente black out. Quello che colpisce, in questi corti, è il crescente anelito dei replicanti a sentirsi e diventare umani. Più umani degli umani, più volte affermano, più puri di essi.
Oltre ai legami narrativi con l’opera precedente, il regista canadese porta avanti una operazione di rielaborazione ed approfondimento tematico di essa, un’opera teorica, una intensa riflessione sul rapporto tra media, memoria artificiale e rivolta politica, e dove l’angoscioso dilemma del rapporto uomo macchina è portato sino alle estreme conseguenze, sino ad elaborare il problema della procreazione, della agnizione, della creazione, che investe problematiche anche metafisiche. In alcuni momenti, pur essendo caratterizzato da potenti scene di azione, e colpi di scena, il film sembra, anche per la sua lunghezza e complessità, debitore delle tematiche tarkowskyane. Lo scarso successo di pubblico, tra l’altro, lo dimostra.
Ci troviamo dunque, nel 2049, 30 anni dopo, in un mondo ove la differenza tra umani e replicanti sembra ormai annullata: essi sono riconoscibili solamente tramite un codice impresso nell’occhio destro, e sono perfettamente integrati nel tessuto sociale, in quanto le colture sintetiche (i “lavori in pelle”, come vengono chiamati) sono ritenute indispensabili nel tessuto produttivo.
Paradossalmente, in questo mondo gli esseri umani risultano cinici e spietati, mentre solamente i replicanti sono in grado di provare pulsioni e sentimenti. Così il protagonista, l’agente K, scopriamo subito che non è umano e la sua compagna è un ologramma. Per avere con lei un rapporto, dovrà ricorrere, in una suggestiva sequenza, alla sovrapposizione dell’ologramma ad una donna reale. L’ambiente è ancora più devastato e degradato di quanto fosse nel primo film, Los Angeles viene descritta come metropoli buia e fredda, cupa e feroce, postindustriale e multiculturale, in preda a neve e pioggia continue, trasformata in una enorme cloaca a cielo aperto, dove si muovono, come formiche, milioni di persone, e fuori di essa vediamo grandi spazi, la costa ovest, ove regnano solitudine, radioattività, degradazione.
Un paesaggio urbano desolato, asfittico, visto soprattutto dall’alto, che conferisce al film un aspetto ancora più “dark” del capostipite, dove i replicanti sono visti come un pericolo costante, a seguito della loro ribellione, avvenuta nel 2022, ed al conseguente fallimento della Tyrrel Corporation (come esplicato nel citato corto “2022: The Black Out, di Shinichiro Watanabe, cartoon di passaggio tra i due film): ad essi è necessario dare una caccia spietata. Il Magnate Wallace, che ha ordinato il “ritiro” dei ribelli, rappresenta nel film il demiurgo che tiene in vita l’umanità: egli riprende la produzione di replicanti totalmente assoggettati, burattini al comando degli umani, ma rimarrà folgorato dal tema della procreazione, un limite che non riesce a superare.
In questo humus ambientale si inserisce la vicenda di K, incaricato di sterminare i replicanti di vecchia generazione: comincia con Sapper Morton (un intenso Dave Bautista), che vive in una fattoria isolata; si dà il caso che nei pressi di essa egli rinvenga una scatola sepolta; all’apertura si scopre che contiene uno scheletro di una replicante, morta di parto gemellare (si scoprirà che era Rachel); questo evento sarà alla base della sua ricerca quasi filiale di Rick Deckard (ritorno in scena di un Harrison Ford molto ispirato), e di suo figlio, unico in vita, in una lunga sequenza che si svolge in una degradata Las Vegas, ove il detective, protagonista del primo film, si è rifugiato. Ma, nel contempo, la multinazionale produttrice dei replicanti ribelli è anch’essa alla ricerca di Deckard,: un replicante che ha avuto un figlio non può essere tollerato (essi sono considerati schiavi e tali devono rimanere). Seguirà cruenta battaglia finale, ove in difesa di Deckard, l’agente K (forse) perderà la vita.
In questo contesto Villeneuve recupera pienamente la “filosofia” di Philip K. Dick, conferendo all’opera una profondità metafisica sino ad ora inedita, e nella descrizione della desolata città post apocalisse, ove appaiono tante immagini del passato e dei suoi idoli, in un mondo in cui la realtà virtuale ha ormai sostituito quella reale, (bellissima la sequenza, ove, nel rifugio di Deckhard vediamo apparire, come ologrammi, Elvis, Marylin e Sinatra) sembra quasi voler rievocare le tematiche di James Ballard sulla realtà virtuale.
Moltissimi, dunque, i temi accennati o affrontati nella complessa opera di Villeneuve, vero compendio e rielaborazione di molte culture “underground” ed alternative, che però, fondamentalmente, deve essere anche vissuta come un flusso di coscienza, subita più che compresa, in quanto caratterizzata da uno stile rarefatto, una fascinazione ipnotica ed emozionale di grande impatto visivo, dove anche le ossessive musiche di Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch, per nulla romantiche, (come era quella di Vangelis nel primo film), ma dure, aspre ed ansiogene, conferiscono al film un’aura cupa, solenne, di potente, violenta spettacolarità, nell’ambito di uno stupefacente turbine di bellezza visiva.
Recensione di Dark Rider