Big Eyes, di Tim Burton. Con Amy Adams, Christoph Waltz, Krysten Ritter, Terence Stamp, Jason Schwartzman. 105 min. – USA 2014.
Basato sulla vera storia di Walter Keane e sua moglie Margaret (rispettivamente interpretati da Christoph Waltz e Amy Adams) arriva nelle sale l’ultima fatica del “dark director” Tim Burton, che qui abbandona le tinte gotiche a favore di quelle pastello, per raccontarci la parabola artistica e sentimentale di questa coppia di gran successo a cavallo tra i 50 e i 60.
Antesignani della commercializzazione e accessibilità dell’arte alle masse, concetto ripreso ed ampliato poi negli anni 70 dalla pop art, i due divennero noti per ritrarre in maniera quasi maniacale soggetti derelitti, perlopiù bambini, con occhi sproporzionatamente grandi e languidi. È anche la storia di una grande menzogna, poiché le opere attribuite a Keane non erano altro che il frutto del lavoro di sua moglie Margaret la quale, con tutte le difficoltà fisiche e psicologiche dell’essere donna divorziata e con una figlia a carico (parliamo degli anni 50) vede nell’incontro con il futuro secondo marito e grande affabulatore, un’ancora di salvezza che alla fine si rivelerà invece una zavorra per la sua autostima ed affermazione artistica. Lasciato infatti il primo marito, Margaret si rifugia a San Francisco e, con l’aiuto dell’amica DeeAnn (Krysten Ritter), riesce a trovare lavoro come decoratrice di mobili cercando contemporaneamente di vendere ritratti in strada per sbarcare il lunario. È qui che viene in contatto con Walter Keane, agente immobiliare con velleità pittoriche e scarso talento (ma inversamente proporzionale a quello imprenditoriale) che dapprima cerca di sponsorizzare l’arte di Margaret poi, grazie ad un’intuizione geniale, si fa carico della paternità dell’intera opera della moglie, ormai relegata al ruolo di “ghost painter” e raccogliendo un successo smisurato a livello di vendite, nonostante le continue stroncature dell’intellighenzia artistica (magistralmente incarnata dalla figura del critico impersonato da Terence Stamp). Vediamo Margaret rimanere invischiata in una vicenda equivoca che parte in sordina e che via via diventa un castello di carte difficile da buttare giù, sul quale poggia tutta la truffa, la conseguente ricchezza e anche la dipendenza da un marito per mezzo del quale subisce passivamente una serie di soprusi che finiranno per portare i due in un’aula di tribunale e risolvere a colpi di pennello la sfida definitiva sulla paternità delle opere.
Raccontare una storia vera, legata ad un’artista che Burton conosce personalmente essendo collezionista dei suoi quadri, ha portato il regista ad abbandonare la sua cifra stilistica e visionaria per offrirci uno spaccato alquanto realistico degli anni 50 e 60. Assolutamente distante dall’altra sua opera biografica dedicata al regista di horror B movie Ed Wood (in qualche modo più Burtoniano se non altro per la tematica trattata), Big Eyes si connota sia per l’esplosione del colore che per la caratterizzazione delle figure di riferimento, i coniugi Keanes appunto, cui il regista asserisce di trovare analogie con la propria persona sia nell’uno che nell’altro. Da sottolineare la recitazione misurata della Adams che si eleva rispetto ad un Waltz un po’ troppo sopra le righe il quale, per dare corpo ad un personaggio subdolo e ambiguo, sconfina suo malgrado più volte nella macchietta.
Il fantastico a cui Burton ci ha abituati lo troviamo forse proprio nella forza di questa donna che precorrendo i tempi ed in un contesto a lei del tutto sfavorevole riesce a rigenerarsi per dare il via ad una seconda vita (anche se grazie ad un credo opinabile che però le permette di avere un sostegno concreto) e riscattarsi in pieno. E forse anche nei soggetti dei suoi quadri, che a ben vedere con questi occhioni tristi e languidi non sono poi così distanti dalle varie creature malinconiche a firma del regista.
Claudia Giacinti