A Beautiful Day – You Were Never Really Here, Scritto da Lynne Ramsay, Diretto da Lynne Ramsay. Con Joaquin Phoenix, John Doman, Ekaterina Samsonov. Produzione: Regno Unito, 2017. Durata: 95’.
Joe (Joaquin Phoenix) è un uomo tormentato da ricorrenti incubi ad occhi aperti. Di giorno si prende amorevolmente cura dell’anziana madre, di notte, invece, si trasforma in uno spietato sicario su commissione. Quando il socio in affari John (John Doman) gli procura un ulteriore incarico per conto del senatore Votto, Joe accetta, ciò nonostante sia sempre più spinto a farla finita con se stesso. Il compito affidatogli è quello di trovare e riportare a casa la figlia del senatore, Nina, finita in un giro di prostituzione. Da quel momento Joe fa della missione una ragione di vita, dando così inizio a una crescente spirale di violenza.
I premi conferiti durante lo scorso Festival di Cannes e il Noir in Festival nonché i commenti della stampa di oltreoceano e della critica nostrana che riconoscono le influenze provenienti dai vari Taxi Driver, Léon e Drive contenute in A Beautiful Day – You Were Never Really Here (You Were Never Really Here, 2017), non lasciano spazio ad alcun dubbio. Nel nuovo lavoro della regista britannica Lynne Ramsay (…e ora parliamo di Kevin) le fonti di ispirazione non sono di certo tenute nascoste, anzi, sono messe in bella mostra fin dall’inizio del minutaggio filmico. A Beautiful Day, nonostante sia basato su un racconto di Jonathan Ames, vive e si nutre del pathos e delle atmosfere delle tre pellicole sopracitate di Scorsese, Besson e Refn tuttavia senza scadere nel più semplice e banale accumulo citazionista ai limiti del plagio. Semmai la quarta opera della Ramsay riesce a costruire un immaginario tutto suo, mettendo in piedi ambienti e personaggi che sì, potrebbero inizialmente sapere di qualcosa di già visto ma che, lentamente, svelano di essere molto di più: merito dell’ottima caratterizzazione del protagonista principale, il Joe interpretato da un bravissimo e più robusto Joaquin Phoenix, che non si limita ad essere la oramai stereotipata figura del sociopatico di turno già vista in molto cinema. Se davvero c’è qualcosa che manca in Joe è proprio la sociopatia: non è un mitomane, né tantomeno un assetato vendicatore in preda al più bieco delirio. Da una parte in lui convivono le “anime” del Travis Bickle di De Niro, del Léon di Reno e del Driver di Gosling, dall’altra parte, invece, viene fornito un personale, intimo e psicologico background di appartenenza: Joe è dilaniato internamente dai ricordi di un’infanzia difficile, dagli orrori visti in guerra e da quelli vissuti, in seguito, come agente dell’FBI.
Tormenti, questi, che lo portano ad essere non un killer su commissione per denaro o altro, piuttosto Joe è un raddrizza torti, un fantasma tra i vivi che corre in aiuto dei più deboli, inabissandosi nei vicoli più sporchi e infidi della metropoli. Non per niente A Beautiful Day riconosce e mette in mostra la sua natura di thriller metropolitano dalle forti connotazioni noir, in cui le notturne location urbane rivestono il ruolo di comprimarie all’azione e – parimenti – mettono alla berlina tutto il marciume che si cela dietro le facciate di normalità perché, in fondo, il nuovo lavoro della regista scoperchia un “mondo nascosto” fatto di corruzione, perversione e chi più ne ha più ne metta, in cui il compito di ristabilire l’ordine non spetta più a chi dovrebbe tutelare il prossimo ma agli anti(eroi) comuni e invisibili poiché A Beautiful Day è proprio questo: la creazione del mythos – parafrasando un noto brano musicale facente parte della soundtrack di Drive – di un a (new) real hero borderline capace di spazzare via il male a martellate, facendo tabula rasa senza remora e senza sosta, anche a costo della propria vita.
Tra sprazzi di brutale e disperata violenza, flashback, tempi lenti e dilatati e momenti dal ritmo più conciso, A Beautiful Day si conferma come un ottimo prodotto dal forte impianto scenotecnico (una regia solida, una superlativa fotografia e un’ottima colonna sonora, a volte dal sapore decisamente lynchiano, ma di certo non un film perfetto e non privo di qualche lieve difetto) che – nonostante la sua carica di cupezza e nichilismo – lascia anche spazio a momenti suggestivi, onirici e – soprattutto – a un barbaglio di speranza e di nuova vita.
recensione di Francesco Grano
a chi dovrebbe tutelare il prossimo
prodotto dal forte
Uno stomaco pieno equivale a un buon umore, mentre uno vuoto equivale a scoraggiamento e litigi. Così come la sazietà https://streamingcommunity.casa/ con i film.