Roma, FONDAZIONE ROMA MUSEO– PALAZZO CIPOLLA 18 aprile – 28 settembre 2014
Andy Warhol è stato on ogni evidenza l’artista più importante e visionario del Novecento; interprete poliedrico del suo tempo, creatore della “Factory”, il loft newyorkese che diventò la straordinaria e folle fucina di artisti di New York, egli ha segnato la nascita della “Pop Art”, ed ha realizzato opere artistiche utilizzando tutte le modalità espressive.
Fu regista e produttore cinematografico d’avanguardia: in questo campo descrisse mirabilmente l’umanità marginale che ben conosceva, con opere come “Lonesome Cowboys”, elegia dell’omosessualità maschile, “Empire”, My Hustler”, “ The Chelsea Girls”, “Vinyl”, stralunata interpretazione in chiave sadomasochista di “Arancia Meccanica” di Anthony Burgess, “The Nude Restaurant”, sfida ad ogni convenzione borghese, realizzati da lui stesso, o come “Heat”, “Trash” “Flesh”, trilogia dell’urbana degradazione, e “Women in Revolt”, dall’allievo Paul Morissey.
Produsse i Velvet Underground, seminale band rock che avrebbe cambiato la storia della musica, alla quale dedicò uno splendido, poetico documentario, divenuto vero saggio di controcultura, “The Velvet Underground & Nico”.
La Mostra organizzata dalla Fondazione di Peter Brant, uno dei collezionisti d’arte più importanti al mondo, è occasione preziosa: essa rende omaggio all’artista che ha saputo emblematicamente rappresentare ed anticipare il mondo della post modernità, presentando circa 160 opere di sua proprietà. Già presentata nei mesi scorsi a Milano con grande successo, avvalendosi della collaborazione di Giuseppe Bonami, ove abbiamo avuto modo di vederla, questa mostra, per lo sforzo organizzativo e la messa in campo di competenze specifiche artistiche, rappresenta certamente una delle più complete mai realizzate per questo artista epocale.
Warhol, ossessionato dalla celebrità immortalò in serigrafie tutti i vip del suo tempo, celebrando mirabilmente nelle sue opere il dominio del mercato, e in molte di esse, tra cui diverse esposte in questa mostra, nel rappresentare pistole, visi celebri, oggetti di consumo, mostrò il lato oscuro dell’America, avviata già dagli anni sessanta, in cui egli iniziò la sua attività, ad una sofferta autocoscienza.
Negli anni sessanta, egli, insieme a Roy Liechtenstein, Jasper Johns, Tom Wesselmann creò la “Pop Art”, ben lontana dall’Espressionismo Astratto, allora in voga: essa, lasciandosi ispirare dalle icone e dalle immagini caratteristiche della cultura di massa, celebrava la quotidianità, il consumo, prelevando gli oggetti “usa e getta” del nostro tempo, ma elevandoli, al contempo, al rango di opere d’arte, simboli della nostra epoca, e pertanto meritevoli di essere restituiti alla coscienza di chi li usa, l’alienato cittadino occidentale.
Fortemente egocentrico e narcisista, geniale promoter della sua immagine, indulgerà molto spesso all’autoritratto, realizzando, tramite le sue maschere, l’icona di sé stesso.
Peter Brant, mecenate, collezionista e curatore della mostra, già amico dell’artista, lo ha descritto come un personaggio mite e schivo, sottolineando la sua straordinaria curiosità intellettuale e la sua non aggressività e tolleranza nei confronti di qualunque diversità.
La mostra si articola in otto sale e mette in rilievo senza rigidità cronologiche tutte le tematiche e gli aspetti dell’arte warholiana, con una scelta di lavori veramente straordinaria.
Forse la più autenticamente strabiliante è la stanza dove c’è Marilyn, nella sua varietà di profili; in essa “Blue Shot Marylin” è l’opera più originale e sorprendente, all’interno della serie dedicata all’attrice; in mezzo alla fronte di essa appare una piccola macchia bianca: è il segno dello sparo di una certa Doroty Podber, che aveva chiesto di “colpire” il quadro, e Warhol, ritenendo che volesse solamente fotografarlo, le aveva dato il permesso.
Salvo poi accettare la nuova situazione, evitando il restauro completo. Quest’opera sorprendente e visionaria rappresenta sicuramente la superstar della mostra.
L’artista americano, che frequentava la chiesa ortodossa per tradizione familiare, crebbe nel culto delle icone e delle ritualità, al punto che le sue creazioni artistiche furono segnate molto spesso da tali concezioni, come dimostra la trasformazione di Marilyn in una vera figura di santa popolare
Non manca la tragica, cupa e vuota serialità delle “Electric Chairs” e “Car Crash”, la morte fermata e descritta come “normale” spettacolo del nostro tempo. Così come i prodotti da supermercato (Brillo, Campbell, Kellog) sono inseriti in scatoloni rifatti in legno, come simbologie delle nostre vite quotidiane.
Uno dei quadri più affascinanti è, certamente, “The Kiss”, che rappresenta un vampiro freddamente stilizzato che morde la sua vittima.
Ma la mostra non finisce di stupire, con l’enorme tela degli “Oxidation Paintings” realizzata con l’urina dei frequentatori della Factory, con un quadro che rappresenta le Drag Queen di New York (“Ladies and Gentleman”), con i bellissimi “Red Elvis”, ed i primi “Flowers”, che rappresentano un tema ricorrente nell’arte di Warhol, ove è descritto il bagliore della bellezza, che sotto lo sguardo dell’osservatore, diventa tragico; ciò in quanto la vita che i fiori incarnano è per l’artista artificiale, duplicabile all’infinito, ed in ogni decorazione, in ogni riproduzione meccanica, egli vede un segno di morte.
C’è, inoltre, anche un monumentale omaggio al dollaro (“Dolla Sign”) e una stupenda, visionaria serie di teschi di vari colori, “Skulls”, nonché l’immancabile “Mao”, immortalato come una star del cinema, con grande pittoricità.
Il senso del tragico, specialmente dopo l’attentato del 1968, realizzato da Valerie Solanas, che quasi lo uccise, lo accompagnò sempre, al punto da affermare, più volte di non sapere se fosse ancora vivo o già morto, di ritenere di vivere in una sorta di limbo tra esistenza e non esistenza: la sua arte, dopo quell’episodio, diventò sempre più cupa ed introspettiva, come le molte lugubri serigrafie di teschi stanno a rappresentare.
In questa serie di lavori eccezionali per forza cromatica ed impatto emotivo, intervenendo sui contrasti cromatici, con colori forti, d’impatto come il blu, il rosso, il giallo, l’artista definì il teschio quasi come una sorta di mitologia personale, e come sempre, fu un grande anticipatore dei tempi, se si pensa solamente a quanto esso diventerà poi importante nella simbologia e nella cultura “punk”, in connessione con le angosce proprie degli anni settanta, i disastri ecologici e la catastrofe nucleare.
La morte, in definitiva, per Wahrol, diventò un’icona essa stessa, che lui trasfigurò realizzando incidenti d’auto, figure criminali, e persino lo splendido bacio di Dracula, cui prima facevamo cenno.
Considerato superficialmente un artista commerciale, egli è in realtà un genio visionario che ha interpretato come nessun altro il suo tempo e previsto con un linguaggio filosofico la società assatanata dal potere della comunicazione e l’ossessione della celebrità ad ogni costo di cui siamo oggi protagonisti e vittime. Egli è un gigante, che ha saputo leggere il mondo dei media ed il loro crescente perverso potere, ha reso visibile la morbosità della gente verso la morte e l’ossessione della gente comune per la fama ed il successo.
Questa mostra, con la sua eccentrica visionarietà, ha colto nel segno e difficilmente potrà essere dimenticata.
Recensione di Dark Rider