Roma, Piper Club, 18 febbraio 2010
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I White Lies non hanno una lunga storia, né aneddoti leggendari alle loro spalle. Già attivi in precedenza con il nome di Fear of Flying, pubblicano due singoli in vinile per un etichetta indipendente (la Young and Lost Club), prodotti dall’ex collaboratore di Blur e Smiths Stephen Street, per poi passare a un nuovo progetto, un nuovo nome e allo stesso management di Franz Ferdinand e Kaiser Chiefs, firmando con la Fiction Records, con cui nel gennaio del 2009 pubblicano l’album di debutto “To lose my life”. E’ il successo immediato: l’album balza direttamente in cima alla classifica britannica e ne viene scalzato solo da Springsteen. Il gruppo appartiene quindi a quella fortunata e assai ristretta categoria di band che riesce a raggiungere la vetta delle classifiche al l’esordio. Inglesi (vengono da Ealing, West London), giovanissimi, la band può contare principalmente su due punti di forza: n. 1, la voce di Harry Mc Veigh, bassa e profonda, quasi baritonale, che ricorda la vocalità di Tom Smith (Editors). Su questo elemento il pubblico del Piper ha potuto contare relativamente, a causa di una laringite del cantante (non è la prima volta del resto che Mc Veigh accusa problemi di salute, le sue corde vocali furono causa anche dell’annullamento delle date di novembre 2009 in Italia). N. 2, un grande batterista, Jack-Lawrence Brown, una specie di metronomo umano, che l’altra sera non si è smentito. Ai due si affiancano il bassista Charles Cave (anche autore dei testi) e Tommy Bowen (tastiere), quarto elemento che si aggiunge alla band nei live.
Il pubblico del Piper è composto in buona misura di adolescenti: chiaro segno che il popolo Emo considera i White Lies parte della loro grande tribù. Un equivoco (la band andrebbe piuttosto ascritta alla scena “New Wave revival”) che è giustificabile solo dando un’occhiata ai testi di Cave, imbevuti di pessimismo e nichilismo esistenziale, atmosfere romantiche e dovutamente neo-gotiche: amore, morte (preferibilmente violenta, qualche volta per mano dello stesso amato/a), desiderio di fuga verso lidi migliori, e di nuovo morte, morte, morte.
I quattro salgono sul palco dopo una lunghissima attesa, sorprendendo un po’ chi, come me, dopo gli scontati Klimt 1918 era convinto fosse il turno dello psichedelico rock degli altri supporters previsti, i Darker My Love. Come al solito, indossano tutti una rigorosa divisa nera, che si scontra con le loro carnagioni albioniche facendoli assomigliare a un commando di S.S.
Aprono il concerto con il loro pezzo migliore, Farewell to the fairground: chitarre taglienti intrecciate al solito sintetizzatore; segue Taxydermy, una non-album track apparsa come lato B dell’edizione in vinile di To Lose My Life. A questo punto Mc Veigh si rivolge per la prima volta al pubblico per salutare “Romaaa” e chiedere scusa per il basso rendimento della sua voce. Appare emozionato e sinceramente grato di fronte al calore che la platea gli riserva. Del resto è giovanissimo, un po’ di emozione gli è concessa. Si prosegue quindi con la cupa E.S.T., introdotta dalla sola batteria, e The price of love, straziante racconto che testimonia ancora una volta quanto i White Lies prediligano il binomio passione-morte. Poi il singolone, To lose my life, che risveglia il pubblico, scatenando pogo e cori di contorno. Seguono A place to hide , che ha il pregio di un testo molto suggestivo, Fifty on our foreheads e Unfinished business, primo singolo della band.
Il gruppo lascia a questo punto il palco per tornare dopo un paio di minuti per un bis lampo di appena due pezzi: Mc Veigh si scusa ancora una volta per la carenza di voce prima di eseguire From the stars e Death, altro singolo, la cui fine viene corredata dall’esplosione di fumo bianco, unico elemento scenografico usato sul palco. Appena un’ora di concerto dunque, che ha lasciato fuori dalla scaletta un brano dell’album (Nothing to give) e la cover dei Talkin Heads che i White Lies amano riproporre dal vivo, Heaven. Eppure non si può rimproverare nulla a una band che nonostante un cantante sfiatato e chiaramente sofferente (un’aria dolente che ben si è accordata al tenore delle canzoni) riesce a fare un grande show. Le critiche a questi ragazzi non sono mancate fin dall’esordio: chi li paragona a Joy Division e Echo & The Bunnymen rimprovera loro di tornare indietro piuttosto che inventare qualcosa di nuovo; quelli che li accostano a Killers, Editors e Interpol li accusano di pura e stantia emulazione; qualcuno obietta che si tratta di un gruppo da “un solo album”, e che bisogna aspettare ancora per giudicarli, vedere quale futuro attende i ragazzi di Ealing. Reggeranno alla dura prova del tempo? Non lo sappiamo. Ma quel che vediamo per il momento ci basta. E ci piace anche.
Recensione by Antonia Ori
Scaletta
La band impprovisa alcuni brani modificando leggermente la scaletta.
- Farewell to the fairground
- Taxydermy
- E.S.T.,
- The price of love
- To lose my life
- A place to hide
- Fifty on our foreheads
- Unfinished business
Bis:
- From the stars
- Death