Little Steven & The Disciples of Soul, Alcatraz, Milano 13 Giugno 2019
Questa non è una recensione, questa è una dichiarazione d’amore.
Potrei riportare le peggiori frasi ascoltate in 4 concerti in 2 anni di Little Steven & the Disciples of Soul, robe tipo “Eh se ti piace la musica con tanti assoli”, o “eh, ma questa è roba già sentita”.
Ma oggi esiste solo l’amore, gli urli col collo inarcato che dicono “Baby baby baby” o “”uoh sha na na na”, come se ne andasse della propria vita, come se tra 5 secondi morirai se non hai urlato con tutto il miglior sentimento che hai in corpo “I know I know I know” .
E li urli cantando e saltando insieme ad una band di 15 variegati elementi, che non puoi non amare fraternamente o persino carnalmente, nel caso delle coriste. Ho visto tutti i grandi che non sono mai riuscito a vedere dal vivo, ho visto le Ronettes, ho visto James Brown, ho visto Sam Cooke duettare con David Ruffin, ho visto Etta James felice At last e Phil Spector che tratta bene Darlene Love e le Crystals.
E il tutto in un’identità precisa e spiccata, governata dall’evidente spirito del sud Italia di Stefanino nostro che esagera ogni emozione, che porta tutto ciò che senti su un piano interstellare di epressione, di Harmony, Unity, Communion!
Tutto ciò, con un pubblico finalmente splendido – Milano non tradisce mai in questo senso, detto da un romano… – talmente da commuoverli quando li costringe al reprise di Love on the wrong side of town, o a farli riuscire quando eravamo già quasi tutti via, per l’ennesimo bis.
I want to get lost in your festival of unlimited possibility.
E ci siamo tutti, al nostro massimo splendore, come quando dichiaravamo il nostro amore alla prima ragazza o come quando siamo patrioti e cittadini del mondo; chi vuole convincerci del contrario, dice una “Bullshit”. Stefanino mio, ma quanto sei oltre? Quanto sei sempre stato oltre? Quanto bisogno c’è di avere ancora qualcuno che le cose le dice in faccia e le dice chiare, uno che si schieri e che ti faccia ballare mentre lo fai? In questi tempi oscuri, dove chi dice queste scontate ed ovvie verità viene tacciato di ogni male da chi governa e vorrebbe confini ovunque, negli USA, in Europa, sul palco di una big band, quanto fondamentale è avere una Greta Thumberg o uno Steve Van Zandt che le dedica una canzone a pugno chiuso?
Vorrei tanto parlare della musica, di come ci siamo risentiti tutti 16enni (senza i problemi dei 16enni) a cantare Trapped Again, Little girl so fine, a urlare e saltare su Desaparecido (dio, dio dio che pezzo!!!), di una sezione fiati meravigliosa e poliedrica, la potenza di Ravi Best, la classe deliziosa di Ron Tooley, la ficaggine estrema di Clark Gayton, la guida costante di Eddie Manion e gli assoli del sostituto per stasera di Stan Harrison (tornato a casa per il diploma della figlia), di una sezione ritmica da sturbo, Jack Daley classe e potenza al basso e Rich Mercurio (menzione specialissima, vera anima della band) alla batteria, mentre Anthony Almonte veleggia sulle percussioni come Clyde Drexler a canestro, Andy Burton all’organo con le mani funky soul, Marc Ribler ad orchestrare tutti quando non viene avanti a suonare assoli 60’s e di gran gusto, Jessie, Sara e Tania ad alzare il livello vocale ed estetico della band e last but not least, Banana Lowell Levinger del quale basterebbe la sola presenza per farci felici, ma in realtà è un geniaccio della musica e praticamente suona alla perfezione ogni strumento gli mettiate davanti.
Ma questa non è una recensione, è una dichiarazione d’amore.
Quindi questo è il festival delle opportunità illimitate, questa è la Summer of sorcery che non vivevamo più da tempo, che sembrava persa e che invece in realtà è sempre stata lì con noi, ad un passo da noi.
Bastava coglierla.
Racconto di Fabio Zona