C’era una volta una band nata nel 2011 a Torino… potremmo iniziare così a parlare di questo gruppo. Chi scrive si è tuttavia imbattuto nel loro sound, un mix ben calibrato di oscurità e ironia, nel corso di un programma radiofonico in un paese che non vi immaginereste: il Lussemburgo. Sono i casi della vita e ringraziamo la curiosità musicale di Paolo Travelli, conduttore dell’emittente Lussemburghese Radio ARA, per questo interessante incontro.
La storia ufficiale della band li vede aprire i concerti di Hugo Race, Bonnie Prince Billy, Dad Horse Experience, Fatalists e festival come Collisioni e Strade Blu. Il loro primo album Lost Bags (Viceversa Records/Halidon, 2011)è nominato per il premio “Fuori dal Mucchio” e riceve un’ottima accoglienza critica, così come il secondo Late For A Song (Viceversa/Audioglobe, 2014).
E’ con il terzo album, Sad Dolls And Furious Flowers, uscito per la prestigiosa Gustaff Records, che si radicalizza la tendenza eclettica e sperimentale: echeggiano memorie di jazz ballad e un etno-folk screziato di elettronica e suoni industrial. Canzoni originali, dal sound sempre potente e coinvolgente, in inglese, francese, spagnolo. La band è terza fra i dieci artisti italiani più degni d’attenzione secondo Classic Rock, dopo Giorgio Canali e Calibro 35.
Ma andiamo a conoscere più da vicino l’universo visionario di questa band. Incontriamo Luca “Swanz” Andriolo all’indomani di un concerto a Reggio Emilia e in vista di due concerti a Roma e ad Anguillara Sabazia (Roma), organizzati da Slowcult per il prossimo maggio.
La prima domanda riguarda ovviamente il vostro nome: da dove viene e cosa significa?
Come certi vecchi un po’ smemorati e mitomani dell’immaginario western, raccontiamo origini differenti del nome, ma la cosa che diciamo sempre, anche ai concerti, è che amiamo molto i gatti. Secondo la biografia sul nostro sito, non c’è alcuna minaccia nel nostro nome. “Immaginate una ragazzina bionda in un vestito stracciato seduta sulle scale malridotte e di un hotel vittoriano abbandonato, mentre regge un sacco adornato forse da piccoli fiori di sangue e una parata circense percorre la strada. Troppo gotico, ma è un buon punto di partenza. Un gatto morto in un sacco è qualcuno di cui avresti dovuto prenderti cura. E ovviamente un memento mori. È il volto di ogni paura, come i tuoi segreti e le tue vergogne, i tuoi scheletri nell’armadio. È un fardello che devi portare, vestendoti a lutto e imparando a nascondere le lacrime. Un giorno dovrai disfartene, ma nel frattempo… continua a fischiare quella canzone triste. E quando dici che il gatto è nel sacco, puoi anche pensare di avercela fatta – probabilmente, se il gatto è fermo, sarà morto: non puoi avere ciò che desideri tanto facilmente, da questa parte del cielo. E i banditi sul sentiero diranno probabilmente che portano solo un gatto morto, prima di estrarre dal sacco i coltelli e farli brillare alla luce della luna. Oh, questa era un po’ troppo letteraria… C’è bisogno di parlare del gatto di Schrödinger della conseguente riflessione sulla Verschränkung? È davvero morto il nostro gatto?” In verità il nome tutto può essere fatto risalire al capitolo quinto di Tom Sawyer, di Mark Twain, col gatto morto nel sacco portato che serve per un rituale che libera dalle verruche. Siamo sempre dalle parti della Bible Belt, quindi.
“Sad Dolls And Furious Flowers”, uscito a maggio 2018, è il vostro terzo disco. Cosa rappresenta nel vostro percorso?
Il disco chiude una trilogia. Lost Bags era un modo per tributare gli omaggi del caso, lottare con lo spirito derivativo e cercare uno stile; Late For A Song un album sofferto, di cambiamenti nella formazione e funestato da eventi biografici luttuosi; Dolls & Flowers un tentativo di parlare di speranza e paura, promesse e minacce, da un punto di vista più maturo e musicalmente vario. Abbiamo tentato di mettere insieme tutte le influenze in un flusso omogeneo, tra cantautorato (anche francese!) e un certo post-rock, dal Tex-Mex agli umori balcanici, dal bluegrass alla musica armena, passando per elettronica, jazz ballad, cabaret tedesco, folk classico e apocalittico, con un approccio più corale e quasi orchestrale. Il lavoro è stato molto lungo, ma siamo soddisfatti.
Quali sono gli artisti a cui vi sentite più vicini e che hanno in qualche modo formato la vostra visione del mondo?
Per ognuno di noi vale una risposta diversa: abbiamo ascolti diversi e questo è un grande vantaggio. Di solito la critica cita personaggi come Tom Waits, Nick Cave e Mark Lanegan, per via soprattutto delle atmosfere vagamente maudit e fumose. In realtà, sarebbero da citare anche gli altri cantautori classici, come Lou Reed, Neil Young, Johnny Cash e ovviamente Bob Dylan e Leonard Cohen. Ma anche Scott Walker, Tindersticks, Willard Grant Conspiracy, Morphine, Vic Chesnutt, Jason Molina, Sparklehorse, e ancora The Pogues, Towens Van Zandt, Willy DeVille, ma anche Jacques Brel, Dominique A… per non parlare dell’influenza che deriva da amici e colleghi: recentemente ho collaborato con Federico Sirianni, Silent Carnival, Stella Burns, Midnight Scavengers, Gianni Maroccolo e ogni volta, che il progetto sia prossimo ai Dead Cat o più lontano, mi sento arricchito e stimolato. Tra gli ascolti dei miei compagni c’è di tutto, da Bowie ai Residents, dai Sonic Youth alla classica, a Badalamenti. E il jazz: anche lì i nomi sarebbero tantissimi!
A proposito di Maroccolo, Luca, sappiamo che hai collaborato al suo ultimo disco: puoi raccontarci qualcosa?
In verità non ho fatto molto per quel disco, va ammesso. Lui è stato insieme esatto e misterioso: mi ha chiesto un testo sulla normalità (e ha voluto anche accertarsi delle implicazioni) e mi ha detto di recitarlo, basso e mugugnato come faccio a volte. Nessuna musica. Quando mi è arrivato il disco, non riuscivo a crederci: il brano era una cosa lirica, ricchissima, epica, che in altri punti corteggiava il silenzio. Credo che il mio tentativo di capire la sua ispirazione mi abbia insegnato un approccio che però devi essere lui per portare a termine. Non è più quello legato ai nomi noti, anche se è depositario di quel passato. Questo disco infinito, periodico, che sta facendo è davvero qualcosa di unico. Lo ascolto e mi dico: accidenti, la libertà!
In che stato di salute si trova oggi la musica indipendente in Italia?
Non so rispondere. Per certi versi, ha fatto il botto: il passo per il mainstream spesso è compiuto con un solo disco e progetti che hanno l’estetica e l’atteggiamento da nicchia, anche un po’ amatoriale, riempiono spazi di solito calcati da mostri sacri. Ma a guardare bene si tratta comunque di pop, fatto in modo forse più ostentatamente stonicchiato. Non so se sia urgenza o marketing. So che non mi riconosco, come ascoltatore di musica, in quasi nulla di ciò che pare mettere d’accordo palchi un tempo distanti quali Primo Maggio, Sanremo, Club Tenco e X Factor. Non amo neanche i testi forzatamente divertenti e una certa autoreferenzialità che a volte mi suona modaiola e superficiale. Ma qui c’è anche un fattore generazionale e la consapevolezza che il cantautorato serio e impegnato ha probabilmente generato una sorta di reazione. Diciamo che probabilmente la vera musica indipendente, qualsiasi cosa si intenda con questa definizione, è ancora altra. I locali non sono più molti, il pubblico è un poco svogliato, la critica meno curiosa di un tempo, ma anche meno esigente. Però non ci si può lamentare più di tanto: la proposta è davvero molto ampia e le sorprese sono continue. Un certo genere di club musicale continua a fare numeri discreti e gli appassionati, magari più silenziosi sui social network (che sembrano a volte l’unico modo di tastare il polso all’utenza musicale) non mancano. Insomma, la musica indipendente ha buona salute ma molti problemi psicosomatici.
Vi siete di recente esibiti in Polonia: com’è andata?
Benissimo. Tanto pubblico, tanto calore, tanta competenza dei tecnici e l’abitudine sanissima di iniziare i concerti in prima serata. La nostra etichetta, la Gusstaff (per cui pubblicano un sacco di artisti che ci piacciono molto e già questa è una soddisfazione) si è dimostrata professionale e affidabile nella promozione. Per questo non darei l’indie per malato, riallacciandomi alla domanda precedente.
Componete i vostri brani seguendo un iter ricorrente o a seconda dei casi scegliete un procedimento diverso?
Non seguiamo un iter fisso. Io, personalmente, di solito scrivo prima il testo, lo limo fino a quando non mi pare sonoro (tengo molto alla metrica, alle rime, all’aspetto fonosimbolico), poi la musica viene quasi da sé. Ma a volte possiamo avere una melodia e pensare di metterci sopra il testo. Altre volte, come nel disco solista cui sto lavorando, parto invece dal suono. Il mio primo lavoro come Swanz The Lonely Cat (Covers On My Bed, Stones In My Pillow) era una sorta di folk da camera, questa volta invece, partendo da armonium e chitarra elettrica, mi sono portato verso minimalismo, elettronica, acusmatica e persino harsh-noise. Ultimamente stiamo lavorando al prossimo disco dei Dead Cat ed è tutto molto condiviso: mettiamo tutte le idee insieme e poi non sappiamo neanche più di chi fosse lo spunto di partenza. Credo che sarà un album diverso dai precedenti, proprio per questo. E poi sto scrivendo un disco a quattro mani con Stella Burns. Lavoriamo a distanza, spedendoci temi, accordi, provini. Ogni nuovo disco porta delle esperienze e delle modalità nuove.
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Intervista di Ludovica Valori per Slowcult