Incontriamo Annalisa Venditti in una breve pausa della sua intensa giornata di lavoro: scrittrice, giornalista e autore televisivo, da anni si occupa di cronaca nera, giudiziaria e omicidi irrisolti per il celebre e seguitissimo programma “Chi l’ha visto?” e ha all’attivo molti interessanti progetti letterari e teatrali. Nel 2016 è uscito “Il giorno dell’Assoluzione” (Editrice dei Merangoli), un thriller psicologico ambientato a Roma. Un libro coinvolgente, dall’incipit decisamente hitchcockiano: proprio da qui inizia la nostra chiacchierata.
Partiamo dal tuo protagonista, il capitano Giovanni Borgia: lo hai costruito a poco a poco oppure è nato all’improvviso?
A poco a poco, risponderei di getto. Anche se in effetti c’è stato un momento ben preciso in cui ho deciso di “scolpirlo”. Era un’estate di grandi cambiamenti e decisi di dedicare tutto il mio tempo a questo romanzo che avevo iniziato e lasciato languire in un cassetto. Nel primo episodio l’ho presentato al pubblico attraverso un’indagine un po’ particolare, ma c’è ancora molto da scoprire sul suo conto. Adesso che sto lavorando al secondo romanzo, lo sto approfondendo. Sognavo da sempre di dare alla luce, attraverso la scrittura, un investigatore, un detective che avesse delle caratteristiche ben precise, come la specchiata professionalità e una ferma durezza per mascherare le sue fragilità. Borgia doveva essere affascinante, sfuggente, non infallibile: un uomo vero.
In questo periodo il genere giallo-poliziesco sta andando bene in Italia: come è stato accolto Il giorno dell’Assoluzione dal pubblico e dalla critica?
Ai lettori mi sembra di poter dire che sia piaciuto. Ho raccolto pareri positivi. I giudizi che mi hanno colpito maggiormente sono stati quelli di un gruppo di studenti che ha letto il mio romanzo. Per alcuni di loro si trattava della prima esperienza con un giallo.
Sentire che la narrazione li aveva attratti e tenuti con il fiato sospeso mi ha inorgoglito. Raccogliere il loro entusiasmo mi ha dato la carica per continuare.
Allo stesso tempo non aver trovato, sino adesso, un lettore che sia riuscito a scoprire la soluzione del giallo mi inorgoglisce.
La critica importante è quella delle persone. Alcuni lettori mi hanno detto che avrebbero voluto conoscere meglio la vita di Borgia, il suo modo di essere… altri mi hanno chiesto di essere meno descrittiva, di lasciare più spazio alla fantasia di chi legge.
La trama è piaciuta quasi a tutti. Il mio libro esiste se esistono dei lettori e i miei personaggi vivono per davvero se – dalla fantasia – entrano nello spazio esistenziale, ovvero nella loro vita, nel loro mondo immaginifico.
L’aspetto psicologico in questo libro ha una grande importanza. Senza svelare nulla ai nostri lettori, possiamo dire che hai dedicato una particolare attenzione al senso di colpa. Come mai hai scelto di incentrare il tuo racconto su questo sentimento?
Credo che il senso di colpa – per chi lo conosce – sia il motore di moltissimi disagi, il detonatore di parecchie azioni, la miccia che accende la maggior parte delle frustrazioni. Un senso di colpa sotteso a una vita può distruggere relazioni, condizionare le giornate, fare in modo persino che qualche manipolatore riesca a usarlo contro di noi.
Il senso di colpa può diventare un’arma del delitto perfetta. Per almeno tre buoni motivi: non lascia traccia, è usata direttamente dalla vittima su se stessa, la sua consistenza psicologica la rende perversa e devastante.
Spesso, anche per lavoro, mi sono accorta che tra vittima e carnefice c’era un vincolo, un legame sottile ma impermeabile ai cambiamenti intessuto proprio sul senso di colpa che il manipolatore conosceva e che era indubbiamente il punto debole della persona oggetto di persecuzione.
Eliminare i sensi di colpa significa abbandonare il peso di una zavorra pericolosa. Bisogna farsi carico delle responsabilità, quelle sì che sono importanti.
Hai collaborato per molto tempo con “La vita in diretta” e attualmente fai parte della squadra di “Chi l’ha visto?”. Quanto della tua esperienza lavorativa entra nei tuoi romanzi?
Questo romanzo non si ispira a una storia vera o realmente accaduta. È tutto frutto della mia fantasia, solleticata però dai continui impulsi e approfondimenti che richiede e dà la mia professione. Ma se ho scelto di fare questo mestiere è perché sono sempre stata affascinata dallo “scavo”, e dal sottotesto che si cela dietro ai pensieri e alle parole, da quella zona d’ombra dove può accadere qualunque cosa. Mi piace parlare con la gente, osservare i nostri comportamenti, raccontare storie vere, trovare il romanzo non nella letteratura ma nella vita di tutti i giorni, tra le pareti delle nostre case, sulle scrivanie dei nostri uffici, per strada, sulle panchine dove le persone si raccontano senza remore, come fanno i viaggiatori, in treno.
Hai scritto anche la biografia di Andrea Baroni, celebre meteorologo della Rai: secondo te qual è il modo migliore di raccontare la vita di una persona?
Io non so se ho raccontato la vita di Andrea nel modo migliore, ma ho deciso di farlo, instaurando con lui un profondo rapporto di amicizia. Come sarebbe stato possibile il contrario? Mi stava affidando i suoi ricordi, la narrazione della sua vita…
Gli sarò sempre grata per avermi consegnato la chiave che apriva lo scrigno della sua memoria. “Una cassaforte chiusa per molto tempo”, come decidemmo assieme di dire.
Ho pensato che il modo migliore per scrivere la sua biografia fosse passare a lui “la penna” in una parte importante del libro: il diario postumo della sua prigionia in Germania come ufficiale italiano che non aderì né al terzo Reich, né alla Repubblica di Salò. Ho ritenuto opportuno fare anche una cosa che forse non tutti troveranno giusta: raccontare nella sua biografia anche molte cose di me, in relazione a lui.
Il cavaliere delle rose e delle nuvole (Edilazio) infatti è soprattutto la storia di un incontro speciale, quello tra noi due. Oltre a essere un libro sulle conseguenze dell’8 settembre in Italia e la vita di un pioniere della divulgazione meteo in tv, assieme a Bernacca.
Qual è la tua disciplina personale nel lavoro di scrittura? Hai un ritmo regolare di lavoro oppure aspetti l’ispirazione?
Ecco, la disciplina non c’è. Bellissima parola, meraviglioso concetto che però non rientra nel vocabolario delle mie giornate. Disordinate, con tante occupazioni diverse. La precedenza va al mio lavoro di giornalista, che – fortunatamente – mi impegna ogni giorno e con grande soddisfazione. Alla scrittura dedico il tempo della mia vita personale, i momenti del mio tempo libero o le vacanze. Direte: come è possibile? Ma questa non si riposa mai? Io sono felice quando mi posso dedicare ai miei romanzi, alle mie idee e ai miei personaggi. Quindi una vacanza al mare, con il pc aperto davanti al blu dipinto blu, per me è perfetta. E poi mica scrivo tutto il giorno. Non ci riesco. E se ci lavoro, dopo mi rilasso con più gusto e in tranquillità.
Quando hai deciso di scrivere? Quale è stato il tuo percorso di formazione?
Non me lo ricordo, ma mi è sempre piaciuto. Per farmi capire, direi che non mi ricordo nemmeno quando ho avuto voglia per la prima volta di mangiare o di andare a dormire.
Fa parte del mio essere e della mia vita.
Dopo il liceo classico, all’Università ho studiato lettere antiche e mi sono laureata in Archeologia e Storia dell’arte greca e romana. In quegli stessi anni di formazione accademica iniziavo a lavorare in un giornale locale occupandomi principalmente di teatro, arte e cultura. Il mio pallino sono sempre stati sia l’archeologia che il giornalismo investigativo. Due argomenti che si toccano, credetemi. Il giornalista scava nel presente, così come l’archeologo fa con il passato. Sempre alle fonti si attinge, sempre su delle ricerche ci si basa. E poi – mi disse un giorno uno dei miei professori – “scava nella terra chi non ha il coraggio di farlo in se stesso”.
Credo avesse ragione. Per quello – nel mio caso – c’è la scrittura. Penso di aver convogliato molte energie dentro le mie passioni.
Tra le tue innumerevoli attività c’è uno spettacolo teatrale che parla della violenza contro le donne: di cosa si tratta?
Donne Perse(phone). Questo è il titolo di un mio testo che mette in relazione il mito classico, la storia di Demetra e di sua figlia, rapita da Ade, con le cronache dei nostri giorni, con storie realmente accadute di donne uccise. Volevo dare voce al legame che permane tra madre e figlia, dopo un atto violento e terribile come la morte violenta. Avevo bisogno di collocare in uno spazio “altro”, quello del mito, l’orrore che invade le pagine dei giornali o i notiziari televisivi. Volevo dare memoria a voci che avevo raccolto, a richieste di aiuto e di giustizia che rimanevano sospese e senza risposte. Il mio lavoro mi aveva portato a parlare con molte madri a cui un uomo violento aveva tolto il bene più grande: una figlia. Questo testo è soprattutto dedicato a loro.
Quando un uomo uccide una donna che è stata sua compagna, o lo è, dobbiamo chiederci cosa non è maturato oggi nelle relazioni, qual è l’anello mancante, per far sì che fatti simili non accadano. Bisogna lavorare sulla prevenzione e chiedere alle donne di cercare aiuto prima, sottraendosi alle maglie strette di rapporti malati. Nessuno salva nessuno in una relazione sbagliata ma chi è in pericolo deve pensare a salvare se stesso.
Il testo è stato portato in scena due anni fa da un gruppo di donne civilmente impegnate sul tema del femminicidio. Hanno seguito un laboratorio teatrale, condotto dalla regista Paola Sarcina, e hanno debuttato dopo tre mesi alla Casa Internazionale delle Donne di Roma. Molte di loro non sono attrici e nella vita svolgono altre attività: insegnanti, giornaliste, operatrici nel mondo del sociale e della comunicazione. Adesso continuiamo a girare con questo spettacolo. A novembre siamo state in due scuole superiori. Esperienza bellissima e per noi molto importante. Tra poco uscirà anche un libro che racchiude il mio testo e narra la storia di questo progetto.
Al termine del tuo libro troviamo una sorta di teaser sulle prossime indagini del capitano Borgia…
Ho avuto questa idea (devo ammettere un po’ vincolante visto che il secondo romanzo non è ancora finito), ma non me ne pento. Sono felice di aver già suggerito gli ingredienti della prossima avventura di Borgia. L’ho fatto anche per legarmi fortemente al progetto. Chiudere un libro, aprendo con il prossimo, mi rassicurava. Voleva dire prendere un impegno importante, fare una promessa ai miei lettori.
Intervista di Ludovica Valori